La Terra Promessa di Copland per la prima volta in Italia, a Torino
La stagione del Teatro Regio di Torino volge al termine: mancano solo L’Olandese volante di Wagner e Il Trittico di Puccini.
Noi abbiamo avuto l’occasione di conoscere The Tender Land, opera pressoché sconosciuta per varie ragioni e pertanto ottimo esempio dell’atteggiamento col quale è auspicabile porsi nella creazione di un palinsesto: l’obiettivo più sensato sembra essere la giustapposizione di ciò che è noto a ciò che invece merita d’essere riscoperto o che è famoso altrove. In questo senso in Regio procede molto bene: a La Bohème si è affiancata La Rondine; a Don Pasquale, La fanciulla del West.
La musica, composta nel ‘53, è di Aaron Copland – newyorchese classe 1900, allievo della celebre Nadia Boulanger, amante e mentore di Bernstein – ed è la prima volta in assoluto che viene riprodotta in Italia. Copland ha scritto solo due opere, e per il resto si è dedicato alle colonne sonore per Hollywood e ai concerti. Qui ha collaborato con Erik John, ballerino e anch’egli suo amante, il quale ha scritto i testi, tra il ‘52 e il ‘54, sotto pseudonimo (sul libretto si trova Horace Everett). Johns ha scritto che si tratta della storia di una famiglia contadina; è giugno, metà degli Anni Trenta, una cittadina sperduta, come tante; e qui una madre (Ma Moss), una figlia che si sta diplomando al liceo (Laurie), […] e il nonno (Grandpa Moss) – questi gli ingredienti per raccontare come le generazioni tendano a imporsi sui più giovani, proiettando su di loro sogni del passato che impediscono la felicità nel presente. Il tema viene affrontato in maniera profonda, quasi esistenziale: la protagonista ha studiato, poichè la sua famiglia ha riconosciuto che è necessario migliorare la propria condizione socio-culturale, ma dopo il diploma cosa accadrà? Nessuno sa dirlo, e a nessuno interessa; ciò che conta è festeggiare il traguardo, il quale non è più personale, ma si allarga a rivendicazione del clan. La terra, intesa come radici, non è lieve affatto, ma forse sarebbe più interessante azzardare un’altra traduzione del titolo: la Terra Promessa, quella che la protagonista sceglierà di raggiungere emancipandosi dal copione che per lei è stato scritto. Laurie, infatti, è convinta che le risposte siano altrove; lontano, molto lontano da quel suo mondo rurale dove il diploma è un punto d’arrivo, e non una delle basi su cui costruire una personalità, un futuro. Carburante della sua curiosità è Martin, vagabondo in coppia con Top, del quale s’innamora. A primo acchito il duo può ricordare i nostri Gatto e Volpe; loro invece sono buoni, onesti. E qui c’è l’altro grande contenuto: forse ognuno vuole semplicemente ciò che non ha, la protagonista infatti desidera e in qualche modo deve andarsene, scoprire, vivere; mentre Martin vorrebbe diventare stanziale, sposarsi, famiglia, bambini. Lei vuole quello che ha lui e viceversa.
La resa è stata molto soddisfacente: innanzitutto, come volevano i creatori, lo spettacolo è andato in scena in luogo intimo, quasi privato. Di fianco al Regio effettivo c’è quel gioiellino tutto specchi e velluti pavone che è il Piccolo Regio Puccini, con le splendide caricature di Lele Luzzati alle pareti. L’orchestra, ridotta a quattordici strumenti, è stata guidata da Alessandro Palumbo, il quale ha reso impeccabilmente quel senso di americanità profonda, dandoci il filtro giusto per analizzare al meglio l’idea di collasso del senso di famiglia che consegue all’emancipazione di una giovane donna. Sullo sfondo permane la delusione degli anziani, ma tutto suggerisce che in fondo, di cosa pensa di te tua mamma, il nonno o la prozia, non te ne deve fregare niente. Che ne sanno loro, che le occasioni han scelto di perderle tutte?
In regia c’è Paolo Vettori, coadiuvato da Claudia Boasso alle scene, Laura Viglione ai costumi, Gianni Bertoli per le luci., L’assetto estetico è essenziale e punta ad evocare anziché mostrare – un modellino della casa, gli esterni che coincidono con gli interni, il filo rosso, la terra argillosa coi germogli – e tuttavia salta all’occhio un unico grande espediente visivo: sul fondale, silenzioso e tuonante come certi quadri in cui l’Onnipotente allarga le braccia, un albero dalla folta e oblunga chioma orizzontale, rossa, e su ogni ramo certe finestrelle da cui si affacceranno gli antenati (ovvero il coro di Ulisse Trabacchin) ansiosi di dire la loro, difendere la tradizione in una realtà sempre più scollata da sé stessa, sempre più in movimento; ma poi quand’è che l’umanità è stata ferma?
Gli interpreti hanno incarnato bene i loro archetipi, e in molti casi è trasparito un sincero trasporto della persona, poiché anche per i cantanti dev’essere recente la scoperta di questa potentissima opera.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Federica Coccino