“La tempesta” di Alessandro Serra torna a Torino dopo la tournée internazionale
Abbiamo (ri)visto La tempesta di Alessandro Serra. L’anno scorso, in occasione della prima nazionale alle Fonderie Limone, ne aveva scritto Giulia Basso. C’è tempo fino a dopodomani, ora, per viverlo al Carignano. Un palco diversissimo, il quale (inavvertitamente, forse) ha trasformato anche la resa estetica dello stesso. Per esemplificare la situazione al meglio, si pensi a Bros di Castellucci, che in molti hanno incontrato sul loro percorso: non c’è bisogno di spiegare perché uno spettacolo come quello funziona meglio a Moncalieri, in un luogo fondato sulla contemporaneità. Per questa regia di Serra, così dichiaratamente ermetica, è lo stesso.
Le repliche sono partite martedì 7 novembre: il teatro è affollatissimo, tutti quelli che lo han perso l’anno scorso non vogliono lasciarselo scappare un’altra volta. Al pubblico sembra piacere molto la spavalderia con cui si pone questo spettacolo: sono in tanti a ridere di quelle risate di chi conosce bene il testo e quindi evidentemente comprende ogni metafora, ogni traslazione. Sicuramente si celebra in modo impeccabile quella magia umana e bestiale del teatro più ancestrale, ma questo avviene attraverso un’impenetrabilità estetica totale: in alcuni frangenti, anche il più bendisposto fra gli spettatori potrebbe esperire una certa apprensione. Sentirsi intimoriti, può capitare.
L’apertura è affascinante, senza dubbio: il telo nero e infinito, la procella ci sovrasta implacabile. I quadri che man mano vengono plasmati e proposti sono ambigui, sciamanici, come un voodoo. Dov’è Shakespeare? Certo, il maestro è tanto classico da esser divenuto forse il più malleabile fra tutti, e poi si tratta dell’opera che segna la fine della sua produzione; pertanto una resa come questa può funzionare. Ed effettivamente funziona: il pubblico reagisce positivamente, s’attarda per applaudire.
Sconsigliato per chi non abbia mai visto La tempesta a teatro, va ammesso: la trama si sfalda sotto il pugno della drammaturgia, i dialoghi divengono prismatici, e si rischia di scambiare le idee coi vezzi (da ambo le parti). Gli agonisti, di converso, avranno pane per i loro denti: i contenuti si possono ripescare, riacciuffare, o magari è il caso di porsi nuove domande sulle tempeste che ci travolgono e ci animano, sui nuovi metodi di usurpazione, sul potere; in breve, sullo strato più profondo di ciò che Shakespeare veramente voleva trasmettere, e cioè non una vicenda storica sicuramente degna d’interesse, ma quel metodo interamente umano di sradicare, tramare, accentrare. Vaneggiare? E poi la Natura, come sempre. Infine, l’andirivieni trascendente del soprannaturale.
Nel programma di sala Serra spiega come il quid di questa regia sia la volontà di riferire a proposito del fatto che tutto avviene di fronte ai nostri occhi, che tutto è vero pur essendo così smaccatamente simulato, ma soprattutto che quella forza sovrumana si manifesta solo a condizione che ci sia un pubblico disposto ad ascoltare e a vedere, a immaginare, a condividere il silenzio per creare il rito. L’uomo avrà sempre nostalgia del teatro perché è rimasto l’unico luogo in cui gli esseri umani possono esercitare il proprio diritto all’atto magico.
Nulla da aggiungere.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Alessandro Serra