“La tarda estate”- L’ultimo viaggio di un uomo, verso casa
“Padrone del tempo, ampliavo sempre di più gli orizzonti, senza sapere che questo spazio, dilatato, mi avrebbe fatto perdere la rotta, la testa, per poi, alla fine, sbarcare nello stesso identico luogo, ma così diverso che non riesco a ritrovare colui che sono stato, così come spesso non riconosciamo, nelle vecchie fotografie, i volti delle persone che abbiamo accanto. Attraverso la città come uno spettro”.
Oséias ritorna a casa, a Cataguases, dopo vent’anni di assenza. In cinque giorni ripercorre con la mente gran parte del suo passato, e con i passi luoghi di persone con cui ha ancora – in un modo o in un altro – un legame: i suoi fratelli e non solo; ognuno di loro perso in una frustrazione o in una relazione, o semplicemente perso e basta, “siamo pianeti erranti in quella casa (…) Ogni tanto le nostre traiettorie si incrociano, quasi collidiamo. Anche se ci respingiamo, la nostra sopravvivenza dipende l’uno dall’altro”. Sono cinque giorni pesanti, di fatica e dolore, ma a fare più male, a Osèias, saranno i ricordi o il continuo rimuginare sulla strada presa, Saranno ora i rimorsi, ora i rimpianti. Quando Osèias torna a casa, sono i primi giorni di marzo, quando lì – in Brasile – si è sul finire dell’estate australe.
Luiz Ruffato scrive “La tarda estate” (La Nuova Frontiera, 2020, pp. 239, euro 17.50) con un ritmo continuo, che segue i passi del protagonista mentre attraversa Cataguases. Una scrittura che corre e si affatica con lui per fermarsi nei suoi stessi momenti di fiato. Una scrittura che si blocca su pensieri fissi – “devo trovare qualcuno che venda berretti” – o su azioni necessarie e meccaniche “pulisco gli occhiali con il lembo della camicia” – e, ancora, che si ferma – e dà anche a noi una pausa – mentre Osèias si rinfresca e specchia nei bagni che lo ospitano o nei suoi pochi momenti di sonno, quando questo stesso non è tormentato. È una scrittura che parla in prima persona, come un flusso di coscienza che scivola dal sudore di un corpo malato ed esausto, stremato.
“Oggi siete in cima, domani… La morte veglia su tutti, siamo stranieri ricchi, poveri, neri, bianchi, tutti viaggiamo verso la stessa destinazione, il buco dove saremo mangiati dai vermi. Io vado per primo, è vero, ma vi aspetterò. Là non hanno valore cose come il disprezzo, la vanità, l’arroganza, l’ostentazione… Là contano le lacrime, il pentimento, il rimorso, il rammarico”.
Luiz Ruffato – che qui leggiamo nella puntuale e precisa traduzione di Marta Silvetti – scrive un libro delirante e doloroso, in cui la coscienza e la consapevolezza umana restano sempre vive per infliggere un giudizio o una punizione verso se stessi, per quella mancata volontà o capacità di riuscire ad andare oltre, senza volgere più lo sguardo al passato.
Marianna Zito