“La straniera” – L’intensità di Claudia Durastanti
“… prendo spesso aerei ma nessuno mi rincorre negli aeroporti per impedirmi di salire sulla scaletta come facevano i vecchi neomelodici, nessuno mi urla di non partire perché altrimenti ne andrà della sua stessa vita, e così penso a tutte le bugie che mi hanno raccontato sull’amore…”
“La straniera” (La Nave di Teseo, 2019, pp. 285, euro 18) di Claudia Durastanti è la storia di una famiglia, la sua. Ma ogni ramificazione di questo lungo e toccante racconto può arrivare a sfiorarci la vita o perlomeno a illuminarci un ricordo. Comincia a Roma, con frammenti umbri, quando i suoi genitori, sordi dalla nascita, si conoscono – casulamente o per fortuna – in quelle strade, forse, che toccano il Tevere.
“… i miei genitori si sono incontrati per i riverberi simili a quelli di una foresta prima di un incendio, non perché era scritto…”
Due vite che si intrecciano attraverso un scrittura intuitiva, che passa il testimone del racconto ora verso i ricordi dell’uno ora dell’altra, in un fluido passaggio a due voci, fino alla vita in comune e alla nascita di Claudia poi e di suo fratello prima; una vita che li barcamena tra Brooklyn e, nel 1990, a San Martino, un piccolo paesino del sud lucano sul fiume Agri, seguendo il destino toccato tanti anni prima a una delle sue nonne “un’immigrata al contrario che abbandonava il futuro per disintegrarsi nel passato”; fino ad arrivare in Inghilterra.
Claudia Durastanti affronta con estrema delicatezza il tema della disabilità, visto da chi l’ha toccata e la tocca con mano e ha la necessità di adeguarsi a determinati comportamenti che, con il tempo, assumono forme naturali, “… la lingua dei segni è teatrale e visibile, ti espone in continuazione…” e trascina sempre con sé l’ombra di quella solitudine che imposta, quasi come un alibi, che allontana dal mondo e avvicina solo le parti più somiglianti. Ma non c’è solo la sordità. Queste pagine conoscono l’abbandono e l’indipendenza forzata, la peste degli anni ‘80 e il gioco d’azzardo. Tante vite e tanti
destini che ritornano sempre nelle loro misere solitudini e ruotano intorno alla vita di Claudia e di suo fratello, che tutta questa scoperta ed esperienza nel mondo, sin da bambini, di sicuro l’hanno pagata a caro prezzo, perché lì dove hanno tanto visto e vissuto, altrettanto è stato loro negato.
“…crescere per me sarebbe stata la storia di una continua salvezza, di una progressiva meraviglia per la mia incolumità…”
Le parole scorrono fluide, forti e disarmanti, nascono da fondamenta determinate e salde, che si sono imposte per delimitare l’unica via salvifica, senza rinnegare le radici, le tante sfumature che ne racchiude altri mille: dall’italoamericano alle parole in disuso del dialetto lucano; fino a quei luoghi in cui a creare un legame resta solo un nome o un ricordo.
Attraverso la scrittura, “lo stigma di chi resta”, Claudia Durastanti effettua una precisa e attenta analisi di se stessa, attraverso i luoghi in cui è passata, gli artisti, la musica e i film che l’hanno segnata dall’infanzia all’adolescenza,
“… capita di tornare dove tutto è iniziato e avvertire qualcosa di peggio che il senso di perdita: il dubbio, sottile e perverso, che in realtà quelle foto o quelle camicie di flanella non ci siano mai appartenute.”
E va avanti così, portando sempre con sé quella sensibilità che l’ha accompagnata sin da bambina e che, con il tempo, ha dovuto deridere e modulare per poter indossare vestiti di donna. Va avanti così, rinascendo a ogni “impatto con l’acqua”.
Marianna Zito