“La Storia” di Elsa Morante si fa teatro di grande valore al CTB di Brescia
“I libri, si sa – tutti i libri, non solo i romanzi – sono prodigi illusorii, meraviglie, incanti, artifici che prendono realtà, peso, sostanza, movimento, colore a seconda della luce e dell’ambiente in cui sono esposti. I libri non esistono in sé e per sé. Esistono solo nel momento in cui qualcuno li legge”.
Scriveva così Cesare Garboli, introducendo “La Storia” di Elsa Morante (1), romanzo famigerato e discusso, soffocato da letture ideologiche subito dopo la sua pubblicazione nel 1974. Sono righe che ci sembrano descrivere in modo perfetto anche l’intuizione scenico/drammaturgica alla base del coraggioso – e riuscitissimo – adattamento teatrale del romanzo, prodotto dal CTB – Centro Teatrale Bresciano, che ha debuttato in questo finale di stagione, dal 22 maggio al 4 giugno, nel raccolto spazio del Teatro Mina Mezzadri.
Palco spoglio, due tipici sedili da sala d’aspetto. Il paesaggio sonoro (curato da Mimosa Campironi) disegna un brusìo incessante di folla, un altoparlante che trasmette annunci. Una donna fa il suo ingresso in scena mentre parla al telefono di uno sciopero. Non potrà partire fino al giorno dopo. Occupa un posto a sedere, e comincia la lettura del libro che porta con sé. Mentre la scansione cronologica corre rapida dal 1900 al 1941, con la semplicità con cui si scivola in un cappotto la donna diventa la protagonista del romanzo. Ida Ramundo, vedova Mancuso, un figlio adolescente di nome Nino. Maestra elementare, ebrea in una Roma travolta dall’assurdità delle leggi razziali, Ida si trova davanti Gunther, soldato tedesco che sfogherà il suo malessere violentandola e poi scomparendo per sempre. Viene concepito così Useppe, figlio nonostante tutto profondamente amato dalla madre. E poi la guerra, i bombardamenti, le fughe e i traslochi, gli incontri (fondamentale quello con il giovane ebreo anarchico Davide Segre), la liberazione, la vita insomma, e i suoi tentativi di ricominciare, inseguendo un miraggio di felicità che si infrange presto sotto i colpi della sorte e di una malattia scritta nel sangue.
Fausto Cabra, ideatore e regista del progetto, non nasconde la forte motivazione personale che lo ha guidato in questo percorso: “Ho letto il libro a 18 anni su consiglio di mio padre, cogliendone soprattutto il lato oscuro, negativo. Poi, prima di morire, mio padre mi disse che gli sarebbe piaciuto vederlo a teatro e allora ne ho scoperto il lato positivo e quelle vitalità che nascevano proprio dalle zone buie” (2). La drammaturgia, firmata da Marco Archetti, condensa in maniera mirabile l’infinita materia umana del romanzo, conservando quella peculiare struttura fatta di digressioni, genealogie, descrizioni, metamorfosi, momenti nevralgici, gusci concentrici ai quali si aggiunge un’ultima decisiva cornice, per cui lo spettacolo diventa anche e soprattutto un tentativo di immersione nella nostra mente di lettori e lettrici, nel modo in cui le pagine prendono vita, in ciò che si sedimenta in noi e ci permette di guardare alle nostre esistenze attraverso un filtro nuovo. Evidente è la lezione di Luca Ronconi, maestro comune al regista e agli interpreti, nel portare sulla scena un testo che per essa non era stato inteso, e il cui adattamento pare anzi impresa ai limiti del possibile. I tre attori offrono prove di grande maturità, rinfrangendosi in molteplici identità, pur ritornando sempre al fulcro rappresentato da protagonisti. Franca Penone è Ida nell’entusiasmo della sua gioventù, nella tenerezza della maternità, nel dolore che porta alla follia. Alberto Onofrietti conserva lo spirito che attraversava “Ragazzi di vita” (era parte del cast diretto da Massimo Popolizio) nell’esuberanza giovanile di Nino, animato da un senso di onnipotenza misto ad ingenuità, che lo accompagnano fino in fondo; offre invece sfumature più drammatiche nel ritratto tormentato di Davide Segre, figura antitetica rispetto al ventenne Mancuso. Francesco Sferrazza Papa infine è prima il soldato Gunther, che non vede l’ora di combattere in Africa ma che soffre troppo la lontananza da casa, e poi – incantevole trasformazione – il piccolo Useppe, con sensibilità e naturalezza tali da sospendere qualunque incredulità. L’approccio alla narrazione in terza persona è carico di umanità, di empatia. I personaggi emergono con immediatezza, intensità, precisione (movimenti scenici di Marco Angelilli), mentre il disegno luci di Gianluca Breda e Giacomo Brambilla scolpisce di volta in volta situazioni e corpi, rendendo materiali le luci e le ombre che si agitano nelle interiorità.
“La Storia” è uno spettacolo diretto e realizzato con intelligenza e dedizione, cura di ogni dettaglio e sincera passione, portando avanti un legame virtuoso con il testo di partenza, con quel romanzo che, in maniera significativa, è fisicamente presente dalla prima all’ultima scena. Risveglia l’urgenza di ritornare a quelle pagine, dove si lega il singolare all’universale, l’individuo alla Storia, i cui meccanismi millenari sono impietosamente e lucidamente svelati. Una lezione di politica e quindi di vita, importante oggi più che mai.
Mariangela Berardi
1 – Elsa Morante, La storia, Introduzione di Cesare Garboli, edizione Einaudi 1995.
2 – Intervista in “Elsa Morante è all’aeroporto. Oggi la Storia siamo noi”, di Maurizio Porro, in La Lettura (Corriere della Sera), 19-05-2019.