“La stanza di Filippo De Pisis” alla Villa Necchi Campiglio di Milano
Fino al 15 settembre la collezione di Luigi Vittorio Fossati Bellani è in mostra a Villa Necchi Campiglio
In via Mozart 14, a due passi dalla GAM, c’è una splendida villa nascosta tra i condomini di Porta Venezia e Corso Monforte: si tratta di Villa Necchi Campiglio, graziosissima perla del razionalismo italiano progettata da Piero Portaluppi, l’architetto e urbanista milanese famoso per le centrali elettriche e per i molti restauri nella sua città; da Santa Maria delle Grazie a San Vittore fino al sagrato del duomo. Costruita tra il 1932 e il 1935, fu abitata dalle sorelle Luigia (Gigina) e Nedda Necchi e da Angelo Campiglio, marito di Gigina. Ora, se Necchi ci solletica il ricordo di qualcosa, è perché le sorelle erano nipoti di Ambrogio, l’imprenditore pavese creatore dell’omonima fonderia, trasformata dal figlio Vittorio nell’azienda produttrice di macchine da cucire che tutti gli italiani conoscono. Nel ’38 la villa viene ridecorata secondo il gusto arabescato di Tommaso Buzzi, il genio che nel dopoguerra trasformò la Scarzuola di Terni in un luogo esoterico e psichedelico. Durante la guerra i proprietari sfollarono a Varese, ma infine tornarono alla villa, dove abitarono fino alla morte. Dal 2001 la villa (che ospita anche le collezioni d’arte di Claudia GianFerrari e di Alighiero De Micheli) è proprietà del FAI, il Fondo Ambiente Italiano, che l’ha restaurata e aperta al pubblico. Oggi si tratta di un sito piuttosto famoso: è tra i luoghi più visitati del circuito del Fondo, anche se forse il merito va anche a Luca Guadagnino, che l’ha scelta come set per uno dei suoi primi film, Io sono l’amore, dove Tilda Swinton e Pippo Delbono sono a capo della famiglia Recchi, cognome che chiaramente rievoca quello dei proprietari originali ma che strizza anche l’occhio alla ricchezza e lo sfarzo di chi vive in certi posti.
Al terzo piano della villa, il più anonimo (perché una volta ci vivevano gli inservienti), è stata allestita una collettiva assolutamente imperdibile: La stanza di Filippo de Pisis – Luigi Vittorio Fossati Bellani e la sua collezione. Tra le varie opere esposte c’è un quadro dal quale è bene partire per intessere il racconto che si cela sotto la mostra: uno scorcio della cancellata di Palazzo Barberini (a Roma), che De Pisis dipinse nel 1943 a Palazzo Tittoni, dimora dell’amico Luigi Vittorio Fossati Bellani a due passi da Palazzo Barberini. E mentre De Pisis dipingeva quella veduta che avrebbe poi regalato a Fossati Bellani in segno di gratitudine per la sua ospitalità, in un’altra stanza di Palazzo Tittoni tante altre opere erano state riunite per creare una piccola, preziosa wunderkammer che custodiva Antony De Witt, Ottone Rosai e Alberto Savinio, oltre che il già citato De Pisis. Fossati Bellani proveniva da una ricca famiglia di industriali lombardi attivi nel settore tessile, non aveva mai avuto bisogno di lavorare, e quindi visse di rendita dedicandosi esclusivamente ad un otium letterario e artistico. Era ricco e colto, e quindi poteva concedersi di recitare la parte del dandy di fine Ottocento. Certo, essendo nato nel 1889, era un po’ fuori sync, ma alla fin fine che importa? Fece una brutta fine, poi, Fossati Bellani: Palazzo Tittoni era (ed è ancora) in via Rasella, i cui abitanti furono coinvolti in massa nel rastrellamento che portò all’infame eccidio delle Fosse Ardeatine. Lui, che evidentemente aveva dei contatti utili, riuscì a sfuggire al massacro del 24 marzo, ma morì pochi giorni dopo, il 3 aprile del ’44. Fece in tempo a far celebrare una messa per le vittime, ma poi un infarto lo colse nel sonno. Aveva 55 anni ed era da tempo cardiopatico, ma probabilmente il trauma accelerò i tempi. Con la morte di Luigi Vittorio, fu il fratello Tullio a occuparsi dell’appartamento di via Rasella, rimasto inalterato fino al ’61, anno della scomparsa di Tullio e dell’inevitabile smembramento della collezione. Per i più pettegoli, un’ultima curiosità: prima di Fossati Bellani, a Palazzo Tittoni visse a più riprese durante gli anni Venti nientemeno che Benito Mussolini.
La mostra, curata da Paolo Campiglio e Roberto Dulio, ricostruisce in maniera fedele il nucleo espositivo della collezione che Luigi Vittorio custodiva in via Rasella: De Pisis è presente con La tinca del 1928 (che fa parte della collezione Gian Ferrari), con il meraviglioso Bacchino recentemente ritrovato, ma soprattutto con un incantevole San Sebastiano del 1930, un pezzo davvero unico, imperdibile. Ci sono poi vari disegni che ritraggono giovani fanciulli aitanti, nature morte, una veduta di San Nazaro a Milano, un interno con il suo pappagallo. Due figure di donna, con la classica testa d’uccello, sono state inserite in rappresentanza di Savinio, il genio d’una metafisica sempre poco considerata per via di suo fratello Giorgio. Un’unica tela per Ottone Rosai e infine tre quadri di De Witt. Quasi tutte le opere provengono da collezioni private, e questa (per ovvi motivi) è sicuramente un’ottima notizia. La camera dell’esposizione è piccola, i quadri non sono molti, probabilmente un visitatore disattento potrebbe rimanerci pochi minuti. Ma le persone più sensibili, quelle più zelanti, riconosceranno sicuramente la qualità curatoriale che si cela dietro quest’occasione, così come sarà evidente il tentativo, riuscito, di ricostituire una preziosa stanza delle meraviglie che molto probabilmente non puntava alla quantità ma alla qualità.
Si tratta, dunque, di una raffinata selezione di opere che, come ogni cosa raffinata, invita lo spettatore a indugiare, a riflettere sui dettagli, sulle pennellate, sui simboli, e così via. La mostra, accompagnata da un bel catalogo Skira Editore, è stata inaugurata il 3 aprile – esattamente sessantacinque anni dopo la morte di Fossati Bellani – e si concluderà il 15 settembre: non perdetevela.
Davide Maria Azzarello