La solitudine come scelta nello spettacolo “Lettere intime” al Teatro Mercadante di Napoli
Rileggendo la sinossi dello spettacolo, risuona quanto le mie aspettative fossero diverse. Avevo sognato un viaggio nell’interiorità e nella psiche, in ciò che ognuno porta dentro, tra desideri e conflitti, amore e guerra. Invece, il testo di Diego Nuzzo “Lettere intime”, in scena al Teatro Mercadante di Napoli, parla di solitudine come una scelta, ma di amore no, se non di quell’amore che è tutto solipsistico, e non incontra l’altro.
Un amore della solitudine. Parla di un uomo che segue la musica, ma non la fa. Frequenta i musicisti e non parla con loro, non vive relazioni. Un uomo, interpretato da Paolo Cresta, che, morendo, sembra non lasciare traccia di sé. È il contrario della società liquida di Bauman, quella in cui tutti sono immersi in tante relazioni che fluiscono, si moltiplicano, crescono e muoiono. Qui no, il protagonista è fermamente legato al suo lavoro, al suo gruppo, al suo amore immaginato, stretto in una sorta di contratto di sangue. Sono tutti legati a sangue. Eppure di questi legami non fanno risorsa, se non economica. Non sappiamo che cosa avesse portato quest’uomo alla sua solitudine, che era prerequisito al lavoro assegnato. Sappiamo che non ha fatto nulla per uscire dal suo stato. La fisicità dell’attore rispecchia il suo stato d’animo, è come impalato durante tutto lo spettacolo, fermo al centro della scena, narratore di sé stesso, con emozioni in filigrana. Le emozioni si intravedono e sfuggono alle parole. Sono le immagini allora a farcele sentire, prendono il sopravvento, altre volte è la musica a prevaricare, e le parole e l’attore scompaiono e talvolta si perdono tre le figure proiettare e i suoni. I tre linguaggi, visivo verbale e auditivo si alternano e si sommano in una sinestesia che trascina lo spettatore e a tratti lo confonde. Come nel mondo dei social network, dove immagini e suoni prendono il posto delle emozioni e delle relazioni concrete, ci si nasconde dietro schermi, e ci si rapporta solo alle immagini degli altri. Sono le macerie del post-moderno, del mondo iperconnesso e ridondante, che lascia una trama sfilacciata.
Resta il senso enorme di solitudine, quasi sbigottita, nella scena finale degli applausi al quartetto, in cui sentiamo l’eco di una commemorazione desiderata ma inconsapevole. È la storia di chi c’è stato a metà, vittima dei suoi stessi non detti e non vissuti. Ed intanto l’ha fatto magistralmente, aderendo impeccabilmente al proprio ruolo.
Brigida Orria
Fotografia di Marco Ghidelli