“La signorina Giulia” sotto lo sguardo di Leonardo Lidi
Ogni volta che il Teatro Stabile di Torino presenta la nuova stagione, una delle prime cose a cui presto particolare attenzione sono le produzioni di Leonardo Lidi in programma, perché non posso negare che il suo stile drammaturgico originale e riconoscibile attiri in modo particolare la mia attenzione. Quindi la scelta di assistere alla sua lettura di “La signorina Giulia” di August Strindberg, in scena al Teatro Gobetti di Torino dall’8 al 13 novembre, è stata obbligata. E come al solito mi sono fatta stupire dalle scelte registiche nelle quali Lidi ha scelto di sciogliere la trama. Un nuovo viaggio nei confini autoimposti dai giovani, che prosegue uno studio specifico del regista all’interno della sua produzione, come si vede sin dal momento in cui si apre il sipario e la scena, a cura di Nicolas Bovey, diventa improvvisamente piccola e claustrofobica. Un muro nero intagliato, con un corridoio basso orizzontale e uno stretto verticale che si intersecano, in un’alternarsi di bianchi e neri, luci e ombre nette che la collaborazione tra Lidi e Bovey porta in scena in ogni loro lavoro e che ha sempre e inevitabilmente un forte impatto emotivo. Solo la geometria bianca di una “T” coricata è abitata dai personaggi. Sono spazi angusti e che limitano il movimento, quasi come le costrizioni e convenzioni sociali che tirano le fila della storia, che ne impongono la trama e che complicano, rendono piccoli e soffocano i personaggi. E anche gli spazi segnano confini. Nella sezione orizzontale, alta un metro e mezzo sopra il palcoscenico, si muove la signorina Giulia/Julie, e Gianni/Jean e Cristina/Kristin, i servitori, soltanto quando, teoricamente, si muovono nella casa dei padroni e si trovano in bilico tra le classi sociali. La sensazione di bilico e instabilità è proprio quella che giunge al pubblico. Nella sezione verticale, più in basso, la signorina Giulia non si muove quasi mai: è la vita di chi sta in basso anche nella scala sociale dell’Europa di fine Ottocento. E passare da un piano all’altro è tutt’altro che facile (in questo caso, anche fisicamente). Ma in questi spazi claustrofobici i muri possono, se non crollare, almeno sfaldarsi nella notte di San Giovanni, quando i sogni sono lasciati in libertà e nobiltà e servitù possono danzare insieme. Conflitto di classe e limite al sogno sono gli elementi fondanti della narrazione, anche quando, in una notte come quella in cui si svolge la scena, i confini sembrano valicabili.
In scena “soltanto” tre personaggi (e lo metto tra virgolette perché in una simile scena essi riempiono e soffocano lo spazio), interpretati da attori spesso presenti nei lavori di Lidi e mirabili per la loro bravura e pregnanza. Sto parlando di un Christian La Rosa nei panni di Gianni, che ancora una volta stupisce il pubblico con il suo studio del personaggio e la capacità di rendere pulsioni e tensioni opposte e fortissime, di ciò che si può e non si può fare e sognare, in un dualismo fatto non solo di potenti bianchi e neri ma di molteplici sfumature di grigio. Al suo fianco Giuliana Vigogna, Giulia, con la quale la sintonia è forte e palpabile, come già si è potuto vedere ne “Il misantropo” sempre di Leonardo Lidi in scena al Teatro Carignano a maggio di quest’anno. L’attrice rende il suo personaggio perfettamente in bilico tra follia e sanità, tra dolore e gioia, convinzione di potere tutto e consapevolezza dell’opposto, in una tensione autodistruttiva che lascia il pubblico con il fiato sospeso. Infine, ma non per importanza, c’è Ilaria Falini nei panni della cuoca Cristina/Kristin: sempre in scena da ascoltatrice muta, colpisce la sua bravura nell’espressione dei sentimenti attraverso l’utilizzo del volto e della fisicità. Costretta a una contemplazione impotente di quanto succede sulla scena, si avvinghia saldamente alle convenzioni sociali che diventano presto l’unica strumento di difesa e sicurezza cui può dolorosamente e infelicemente aggrapparsi.
E dopo questo spettacolare lavoro che Leonardo Lidi e i suoi attori hanno potuto regalarci, non ci resta che attendere il 13 dicembre, quando li vedremo tornare tutti in scena, questa volta sul palco del Teatro Carignano, ne “Il gabbiano” di Čechov, il primo della trilogia che ad esso ha scelto di dedicare Lidi.
Giulia Basso