La serva padrona di Pergolesi nel cortile dell’Arsenale
È il 1733: Giovan Battista Pergolesi, ventitreenne, compone un intermezzo comico per il compleanno di Elisabetta Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel, moglie di Carlo VI d’Asburgo e pertanto imperatrice consorte del Sacro Romano Impero. Il 28 agosto, al Teatro San Bartolomeo (sostituito poi da una chiesa con la costruzione del San Carlo), il pubblico non rimane particolarmente colpito da La serva padrona: l’epoca degli interludi demenziali, fondamentali per allentare la tensione delle opere serie, pian piano stava tramontando per cedere il posto ad una distinzione più netta. Spettacoli leggeri o gravi, stop alle mescolanze. Eppure, a distanza di quasi trecento anni, sappiamo che questo specifico libretto è stato interpretato e acclamato molto più de Il prigionier superbo, sempre di Pergolesi, i cui atti racchiudevano appunto l’intervallo giocoso di cui sopra. Accadono infatti due eventi: innanzitutto, tre anni dopo, Pergolesi muore. Si pensa che avesse la spina bifida o la poliomielite, ma il colpo di grazia arriva ovviamente con la tubercolosi. Parte così il processo di divinizzazione: i suoi partiti entrano nell’auge della musica italiana. Nel 1752, inoltre, parte una bagarre in parte borghese e in parte intellettuale perché dei commedianti italiani riescono a portare La serva padrona all’Académie de Musique di Parigi (che oggi è l’Opéra): per due anni certa nobiltà stucchevole si lamenta asserendo che, se proprio bisogna accettare anche la musica italiana, allora sarebbe più opportuno relegarla al Théâtre des Italiens. La disputa evolve; l’oggetto della controversia è il primato del teatro musicato: è più raffinata la lirica italiana o quella francese? Scende in campo persino Jean-Jacques Rousseau, italianista convinto. (Off topic: nel ’54 Luigi XV risolve la questione bandendo i buffoni italiani dai teatri francesi). Considerato che la querelle nasce ufficialmente con le repliche di questo intermezzo pergolesiano, è fisiologico che il pubblico (eterogeneamente inteso) voglia conoscere e riascoltare la scintilla, il pretesto, il casus belli. Forse, ma bisognerebbe approfondire l’argomento, è altresì vero che la trama de La serva padrona in qualche modo legittima, seppur in modo scherzoso e magari anche inconsapevole, quel sistema di arrivismo tipico degli arrampicatori sociali, degli avidi, di coloro i quali difendono il classismo perché tanto c’è mobilità tra le classi; che certo son sempre esistiti, ma con le imminenti rivoluzioni industriali questi ferini ambiziosi post-religiosi vengono normalizzati e necessitano di convalide e riconoscimenti culturali.
Una sinossi, in breve: la giovane, furba Serpina lavora a servizio in casa dell’abbiente Uberto; lei è scaltra, lui un po’ meno. Lei si approfitta di lui, che le dice di voler prendere moglie, allora lei si propone per quel ruolo, ma lui rifiuta. Lei, dunque, punta sulla gelosia e dice di aver trovato marito: arriva Capitan Tempesta, che poi in realtà è solo Vespone, l’altro servo, travestito. Serpina chiede una dote di quattromila scudi, quindi Uberto, pur di non pagare, la sposa. E di serva divenni io già padrona, chiosa la protagonista.
Il Teatro Regio di Torino, per queste sere d’estate, ha scelto di portare sul palco la leggerezza di due intermezzi settecenteschi: uno è il succitato, mentre domani partono le repliche di Pimpinone ovvero le nozze infelici, di Philipp Telemann. Sabato 17 luglio, cortile dell’Arsenale, la prima. I posti sono quasi tutti occupati. Idem per l’unica replica del martedì seguente. Il direttore Schwarz sale un attimo sul palco per dedicare lo spettacolo a Graham Vick, scomparso il giorno stesso. In regia c’è Mariano Bauduin, che per fortuna sceglie di non ammodernare in nessun modo la struttura estetica dell’opera: sembra di saltare all’indietro in una Napoli signorile e settecentesca. C’è una certa delicatezza ma anche molta volgarità: è un’occasione frivola, beffarda, caricaturale. Il filtro di tutto è il disimpegno. La congrega tecnica annovera nomi ormai noti: Claudia Boasso per la scenografia, Laura Viglione per i costumi, Andrea Anfossi per le luci. Il risultato, a livello visivo, è semplice ma non banale, essenziale e barocco assieme. Molto ordinato, gradevolissimo. Boasso lascia che emerga il valore miniaturistico di questa novella, di questo aneddoto, inserendo un teatro nel teatro: la vicenda si sviluppa all’interno di un palco ridotto, delimitato da una finta arena lignea con tanto di spalti bidimensionali. All’interno, un divanetto, qualche sedia, un quadro con un vescovo anonimo, un separé. Sul fondo, la riproduzione di un ampio ambiente rococò. Dirige l’orchestra Giulio Laguzzi, con Carlo Caputo al clavicembalo. Cantano Marco Filippo Romano e Francesca Di Sauro, semplicemente impeccabili nella resa del libretto di Gennaro Antonio Federico, che tuttavia spesso non si poteva leggere perché gli schermi con i sottotitoli quella sera avevano evidentemente scoperto la comodità del libero arbitrio, e continuavano ad accendersi e spegnersi. Il problema, comunque, ed è stato bello notarlo, quasi non sussisteva: l’ottima dizione degli interpreti e l’innegabile disinvoltura lessicale e sintattica del libretto garantivano una perfetta fruibilità. Divertentissimo, infine Pietro Pignatelli, che interpreta Vespone e Tempesta e che, tra i due brevi atti, intona alcuni passaggi da Il frate innamorato (sempre di Pergolesi).
Davide Maria Azzarello