La scrittura che fa centro: una chiacchierata con Francesca Sangalli
Lo scorso 4 giugno è uscito in libreria il romanzo “L’imprevedibile movimento dei sogni” di Francesca Sangalli e Fabrizio Bozzetti, per la casa editrice DeA Planeta. Abbiamo incontrato Francesca Sangalli dopo aver letto e recensito il romanzo, per farci raccontare qualcosa in più e approfondire alcune delle tematiche presenti.
R.U.: È uscito lo scorso giugno il tuo romanzo “L’imprevedibile movimento dei sogni”, si tratta della tua opera prima di narrativa?
F.S.: Si tratta della mia prima opera di narrativa completa, però ho pubblicato già in passato un racconto in forma monologante, dal titolo “il Mulo”, poi un altro racconto che è diventato un Radiodramma per la RAI* e un eBook** con degli aforismi sui bambini, quindi in realtà sarebbe la mia quarta pubblicazione, ma è il mio esordio narrativo.
R.U.: Questo esordio narrativo porta la firma anche di Fabrizio Bozzetti, quindi si può definire un libro a quattro mani? Come definiresti questo lavoro?
F.S.: È un lavoro su un soggetto condiviso; ha origine da un’esperienza personale legata a Fabrizio Bozzetti, talentuoso sceneggiatore friulano, che ha avuto una nipote malata di IAP così come Eleonora, una delle protagoniste del romanzo. Da questa prima idea si è generato un intreccio per un soggetto cinematografico che ha accolto al suo interno molte esperienze legate alla mia vita di figlia di medici, lunghi trascorsi in ospedale e visite e racconti sui sanatori dove ha lavorato per anni mio padre: poi nella pratica a me è stata affidata di più la parte narrativa, mentre lui è la guida nella stesura della sceneggiatura cinematografica e sarà conclusa a breve. Il film che sta prendendo forma si avvale del prestigioso contributo del regista Beppe Tufarulo e dello sceneggiatore romano Massimo De Angelis.
R.U.: Il libro racconta una storia molto profonda con una scrittura molto minuziosa e con delle bellissime immagini, come se il lettore fosse presente nella storia; si sente la compartecipazione emotiva di qualcosa attraverso la voce narrante della protagonista, Isabella, era questo il tuo intento?
F.S.: Provenendo da un ambiente drammaturgico, mi è sembrato subito esaltante trasformare il soggetto cinematografico (che notoriamente è in terza persona presente) e provare a renderlo più emotivo, più personale e misterioso, facendo leva su quella che è stata ed è ancora la mia scrittura da tantissimi anni, quella teatrale e monologante. Ho pensato che il punto di vista soggettivo, avrebbe potuto valorizzare di più le emozioni del lettore perché speravo si calasse nel personaggio di Isabella e, perché no, anche negli altri personaggi. Il punto di vista della protagonista permette di fare larghissimo uso di questa introspezione per leggere la realtà e cercare di capire cosa è onirico e cosa è reale e, secondo me, per raccontare un momento di passaggio come quello dell’adolescenza tutto questo ha un grosso plus: riuscire a staccare le convinzioni infantili da ciò che viene proiettato sulla realtà; a un certo punto la storia si trasforma e assume una forma spettrale, molto nebulosa, ma lo fa gradualmente, perché la visione passa attraverso le lenti distorte di una ragazza spaesata che si deve confrontare con il nuovo contesto ospedaliero. È questo che fa sempre dubitare del fatto che non ci sia una proiezione interiore e onirica sugli eventi nell’intento di costituire una metafora sulla morte e sulla vita. Questo devono fare le storie: non essere solo storie perché hanno un intreccio, ma perché vanno ad approfondire dei temi attraverso il simbolo, la metafora, contro la credenza che tutto sia come lo vediamo.
R.U.: Come è stato per te far nascere e sviluppare i personaggi nel loro graduale percorso di crescita?
F.S.: È stata sicuramente una full immersion totale, mesi in cui sono sprofondata nel personaggio di Isabella, cercando, all’inizio del romanzo, di spostare la lancetta del suo temperamento verso questo atteggiamento di chiusura scostante, competitivo, trovando dei riferimenti sia nella memoria personale sia nella letteratura, perché volevo qualcosa che potesse un po’ andare oltre alla semplice esperienza individuale. È anche un po’ il lavoro che amo fare quando mi occupo di drammaturgia con il teatro sociale dell’esplosiva Marta Marangoni. Riportare la memoria vicino alla letteratura e rivalorizzarla: infatti nel libro ci sono molte citazioni e ispirazioni letterarie, anche se sono solo accenni che poi si abbandonano o tracce che portano verso un nuovo tassello del puzzle. Sono molto contenta di aver tenuto dentro di me l’ispirazione de “La Montagna Incantata” di Thomas Mann, ricollocando molte scene lungo le verande dell’ospedale di montagna. Questo sanatorio esiste davvero, l’ho vissuto moltissimo, lo conosco da quando ero piccola e rispetto a quello che era il soggetto cinematografico, il romanzo e ha bisogno di tantissimi particolari, di affondare nel dettaglio di raccontare ciò che è visivo. Così sono andata a cercare nei luoghi che conoscevo dall’infanzia e che ho frequentato per tutta la vita. Sono stata 5 giorni in questo sanatorio, come “intrusa”, ovvero non mi sono dichiarata, perché volevo proprio vedere cosa si provava a essere un po’ un fantasma: l’ospedale doveva essere un luogo semi abbandonato per l’estate e, se ci pensi, difficilmente un ospedale di città è semi abbandonato per l’estate. Ho dovuto trovare una location che avesse queste caratteristiche e questo è stato un passaggio molto condiviso con Fabrizio: la scelta del luogo, perché l’ambientazione è il quarto protagonista della storia. L’ambientazione vive, trasforma, è l’utero in cui le tre ragazze costruiscono il loro legame, attraversando questi labirinti fino a ritrovarsi. Prima o poi, anche sbagliando più volte la strada, si giunge alla meta. Spero che il romanzo lasci anche un messaggio positivo dato che, nonostante accada un incontro molto difficile con il corpo perché la malattia riporta al riconoscimento del limite, Isabella è spinta a trovare la sua identità, integrandosi come essere umano più completo. Infine, in qualche modo, questo processo la conduce verso una scelta che è più legata alla sua discendenza, riconoscendosi anche come donna, e non solo come un’atleta.
R.U.: Come si è svolta la stesura del romanzo?
F.S.: I tempi dedicati alla stesura delle varie parti del romanzo non sono stati tutti uguali: c’è stato un lungo passaggio iniziale che è servito a trovare una voce adolescente, con quell’ostilità spiccata della ragazza costretta contro la sua volontà in un programma di esami e controlli, la sua natura ostile, una voce narrante credibile capace di mettere a fuoco il sistema di pensiero e riflettere su come sostenerlo per tutta la vicenda. Il target di riferimento poteva essere molto vasto, ma chiaramente questa storia è indirizzata in maniera specifica verso gli adolescenti e non per forza solo ragazze, anche se l’immaginario è femminile. Non escludo che il romanzo possa piacere anche ai ragazzi perché ha anche un intreccio thriller e la parte legata agli incubi generati in questo ospedale semi-dismesso a picco sul vuoto fa venire i brividi. Stare lì a guardare questo strapiombo: un senso di vastità, un cielo sconfinato che sembra portarsi dietro un’eredità antichissima, uno sguardo a picco sul vuoto dalla veranda del sanatorio. Quando mi sono affacciata da quel terrazzo dove un tempo erano sdraiati, in cura, i malati tubercolotici sono rimasta anche io “incantata”.
R.U.: Al di là della storia delle ragazzine c’è anche la storia delle loro famiglie che sono altrettanto complicate, problematiche, che sviluppano altre tematiche…
F.S.: Queste sono realtà nate dopo un lungo periodo di interviste che hanno occupato la fase iniziale della stesura; il lavoro di condivisione e rivisitazione del soggetto ha portato nel 2018 a vincere il premio Olbia Figari Film Fest come miglior soggetto per sceneggiatura cinematografica, successivamente sono state apportate altre variazioni che hanno portato alla vittoria del contributo MiBAC (Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo), arrivando a ottenere il secondo premio con Beppe Tufarulo, Massimo De Angelis, Fabrizio Bozzetti. Il soggetto originale portava il titolo “Estate senza fine” mentre nello scomparto letterario è stato trasformato in “L’imprevedibile movimento dei sogni”, un titolo molto più adatto ad affrontare la parte simbolica che caratterizza i temi del romanzo di formazione.
R.U.: Quali sono i tuoi prossimi progetti? Scriverai un altro romanzo?
F.S.: Sì, come scrittrice mi interesserebbe lavorare ancora a queste fragilità umane in relazione alla società intorno a loro, il racconto “Il Mulo”, ambientato durante la prima guerra mondiale è l’esempio di un vissuto passivo e innocente nel contesto del conflitto: è nato da un’ispirazione legata a Monica Patrizia Allievi, bravissima regista di teatro ragazzi, che ne ha prodotto un fantastico spettacolo per bambini sulla Grande Guerra. Il tentativo è quello di raccontare quella che è stata la vera esperienza di vita e di guerra del mio bisnonno, che ha lasciato un diario in cui riportava come si fosse trovato in trincea a sentire tutti i dialetti che si incrociavano per la prima volta insieme, costituendo questa sorta di grammelot della trincea. Attraverso le parole del mulo la storia si fa esempio di come l’ingenuo (soldato semplice) veda e viva i meccanismi più grandi di lui, come ne sia vittima e come ne possa uscire con una parziale consapevolezza delle manovre che stanno sopra di lui. Per “L’imprevedibile movimento dei sogni” mi interessava molto l’idea del sistema ospedaliero, in cui ho vissuto anche io gran parte della mia vita, avendo una famiglia composta esclusivamente da medici. L’ospedale è un meccanismo gerarchico, a cui il paziente non può fare altro che affidarsi, deve farlo, e può essere interessante per un ragazzo o una ragazza capire questo sistema imparando a trovare un proprio spazio, nonostante tutte le regole. Anche l’ospedale, a suo modo, è una metafora. Il romanzo può dare l’impressione di essere drammatico, ma è ricco di spunti ironici di vitalità, amo una scrittura che possa sfiorare l’ironia, penso anche sia un’arma straordinaria e, in certi casi una vera “salvezza”.
Ringrazio Francesca Sangalli della disponibilità e per la piacevolissima chiacchierata.
* “Autoradioascoltatore”
** “Sfasciare il bambino non vuol dire farlo a pezzi”
Roberta Usardi
Foto di Roberto Gandola