La “scossa del sacro”: note sull’Orestea di Anagoor al Teatro Astra di Torino
È un’impresa sicuramente non facile orientarsi nella complessa stratificazione di linguaggi e significati cui ha dato vita il collettivo Anagoor con “Orestea. Agamennone/Schiavi/Conversio”. Lo spettacolo è stato presentato in prima assoluta alla Biennale Teatro 2018 a Venezia, in occasione della consegna del Leone d’Argento alla Compagnia. La tournée si è conclusa – per questa stagione – al Teatro Astra di Torino, e particolarmente con la replica del 31 marzo 2019, cui abbiamo assistito. Nei giorni successivi e fino a oggi però, quelle immagini, quelle parole, quei suoni, sono rimasti presenti, sedimentandosi per tornare a galla, incessantemente.
Il regista Simone Derai e la drammaturga Patrizia Vercesi curano la scrittura traducendo di propria mano dall’originale greco il testo di Eschilo, e procedendo poi a uno scavo profondo volto a scoprire come carne viva i nuclei tematici fondamentali, interpolando brani di altri autori che ampliano le maglie del discorso. Si passa così attraverso gli “orizzonti di pensiero e parola” di Sergio Quinzio, Emanuele Severino, Sergio Givone, W.G. Sebald, Giacomo Leopardi, Annie Ernaux, Hermann Broch, P. Virgilio Marone, Hannah Arendt, G. Mazzoni.
La messa in scena procede per brani visivi, per evocazioni simboliche mediante le quali i significati lasciano la loro dimensione di latenza per diventare emotivamente palpabili (atmosfere coadiuvate dal light design di Fabio Sajiz). In maniera salda si mescolano e compenetrano diversi linguaggi nella totalità di un’opera d’arte complessa: dalla danza (coreografie di Giorgia Ohanesian Nardin), ai video realizzati dallo stesso Derai con Giulio Favotto, l’utilizzo scenico dei microfoni, la musica e sound design di Mauro Martinuz. Rituale e corale è la prospettiva in cui vive e palpita il lavoro degli interpreti. In scena Marco Ciccullo, Sebastiano Filocamo, Leda Kreider, Marco Menegoni, Gayané Movsisyan, Giorgia Ohanesian Nardin, Eliza G. Oanca, Benedetto Patruno, Piero Ramella, Massimo Simonetto, Valerio Sirnå, Monica Tonietto, Annapaola Trevenzuoli.
L’Agamennone è conservata quasi nella sua integralità, nel titolo come nel testo, financo rimarcando la scansione originaria di prologo, parodo, episodi e stasimi. Si mettono radici nel tempo remoto di una percezione primigenia e perciò più profonda della vita, governato dalle leggi non scritte, e segnato dalla ferita ancora sanguinante della lotta tra matriarcato e patriarcato. Il rito del sacrificio si fa immagine video e scultura in scena, il vitello riporta ad Ifigenia, immolata su un altare dal suo stesso padre, come richiesto dagli dèi, per partire in guerra. Agamennone vittorioso viene accolto nelle antiche vesti di re (costumi e maschere realizzati da Serena Bussolaro e Christian Minotto su progetto di Derai). Clitennestra lo invita ad entrare nel palazzo, in una processione solenne che anticipa l’omicidio che sta per compiersi: urne cinerarie svuotate ai suoi piedi e le maschere funerarie sbalzate in oro fondono il trionfo al rito funebre. Con Schiavi/Conversiosi opera invece un progressivo distaccamento dalla struttura eschilea. Solo alcuni episodi sono conservati dalle originarie Coefore. Prima la figlia Elettra, poi Oreste, si recano in visita alla tomba del padre. Dieci anni sono passati dalla sua morte. Infine, i due fratelli si riconoscono. Il tempo narrativo e scenico è dilatato e, sul palco pressoché spoglio se non fosse per il tracciato che recinta una zona percepita come sacra, la danza, le invocazioni e il fumo degli incensi si intrecciano a “Campo Santo”, brano di W.G. Sebald tratto da Le Alpi nel mare. È la rottura del mondo ancestrale a favore di quello civilizzato. È la rimozione della morte e della sacralità del suo tempo, pensiero da allontanare “il più in fretta possibile, e nella maniera più radicale”. Oreste ci viene mostrato fragile, nel momento lancinante del dubbio prima del matricidio. Sotto i nostri occhi e davanti a sua madre non agisce. E se nelle Eumenidi la giustizia arrivava dal Tribunale dell’Areopago, non più da un dio ma dalla polis, nel coro finale secondo Anagoor tutti gli interpreti tornano in scena, conservando indizi di quello che sono stati.
I morti con i vivi, e insieme a loro noi pubblico, osserviamo le immagini di un tempo che passa, ma la cui memoria, grazie all’arte, grazie al teatro, rimane presente e viva, magma al di sotto delle nostre vite.
Mariangela Berardi