La Rondine di Pierre-Emmanuel Rousseau al Teatro Regio di Torino: la leggiadria e l’inaspettato
Sono due i binari lungo i quali corre la nuova produzione del Regio di Torino: una svagata piacevolezza in ambito estetico e l’assoluta autorevolezza canora, la quale al meglio esprime il senso dell’imprevisto proprio de La rondine di Giacomo Puccini, o meglio del suo finale, in cui una donna – caso tendente all’unico – ritorna sui propri passi, rinuncia al finale favolistico che le era stato assicurato per tornare a un passato di perdizione. Oggi, probabilmente, parleremmo di autodeterminazione. Magda, d’altronde, è una donna contemporanea, anche in virtù delle sue contraddizioni: femminismo ante litteram?
Dopo alcune questioni legate al diritto di sciopero, a Torino è tornato un titolo che mancava dal ’94 e che, con La Bohème, celebra il centenario dalla morte del compositore. La versione è quella del 1917, e quindi si è scelto di rinunciare proprio allo spartito di quando c’era Carlo Majer alla direzione, trent’anni fa, quella in cui il terzo atto veniva ampliato. E tuttavia in termini di regia e direzione non vi è nulla da eccepire, pertanto si è trattato di un’occasione piacevole, non ermetica, forse un po’ disimpegnata ma questo di per sé non significa nulla. Tutto l’assetto estetico di Pierre-Emmanuel Rousseau – scene, costumi, luci – risulta coerente a se stesso, e così anche l’operazione di Francesco Lanzillotta, il quale – dirigendo sia l’orchestra che il coro – ha saputo rieditare efficacemente i toni svagati, finanche patetici, di un Puccini moderno e super partes. Divertente e cinica insieme, la partitura anticipa il gelo della principessa Turandot (per citare il direttore Lanzillotta), il finale di carriera di Puccini.
Così il primo atto – il ricevimento da Rambaldo, il protettore di Magda de Civry, la protagonista – diventa una festa privata nel 1973 (l’anno di riapertura del Regio) a base di alcol e cocaina. Siamo in una camera da letto rivestita di pannelli dorati, e due vasi blu; un salottino col pianoforte, sullo sfondo una breve gradinata e un’ulteriore stanza che va e viene, col divano di velluto nero e un busto appeso di schiena. E ancora: una tigre di ceramica a grandezza naturale, una testa di cavallo in gesso, una sfera con una ranocchia. Folle amore… folle ebbrezza… Prunier, il mago, prevede che Magda un giorno volerà come una rondine. S’intende forse che scapperà con Ruggero, l’amico di Rambaldo, o forse la profezia riguarda il momento in cui, nel terzo atto, lei ritornerà sulla scelta facile, per farsi mantenere da un uomo che dobbiamo immaginarci vacuo? Nel secondo atto sembra di stare negli ambienti del Regio, o in una discoteca in stile Mollino: il rosso, la geometria, le porte con lo specchio ovale, i divanetti, le lampade a sfera, le tende di metallo. Il Bal Bullier diventa l’afterparty dei ricchi in maschera: è lo Studio54, si ammicca, si ballano il valzer, il fox-trot, lo slow-fox, ma tanti giovani sui tacchi a spillo passano dal Tuca Tuca al vogueing; intanto la vicenda giunge ad un primo epilogo, con la nuova vita di Ruggero e Magda. Atto terzo: la scena recupera l’impianto della prima ma siamo in Costa Azzurra, le palme nei vasi e un fondalone celeste come il mare, il cielo, o una piscina di Hockney. Giusto due sdraio, e una tenda bianca che sventola appena. E il colpo di scena decisivo, quello che rende Magda diversa da tutte le altre: lei non vuole sposarsi, non vuole bambini, non vuole schemi?
Questa Rondine è una gioia per gli occhi, le orecchie e la mente. Plausi in particolare per le coreografie di Carmine De Amicis, per le scene, per la rimodulazione dello spaziotempo. Le repliche sono partite il 17 novembre e sono terminate il 26: noi eravamo presenti il 21, e pertanto abbiamo avuto il piacere di assistere alle performances di Carolina Lopez Moreno (Magda), Marilena Ruta (Lisette), Oreste Cosimo (Ruggero Lastouc), Marco Ciaponi (Prunier), Vladimir Stoyanov (Rambaldo Fernandez).
Ora è la volta de La bella addormentata dal Nazionale di Praga, in scena dal 7 dicembre.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Andrea Macchia