La resistenza di un lungo amore sulle sedie del tempo
Com’è possibile raccontare il senso profondo di tutta una vita trascorsa insieme? È a un tale interrogativo che risponde con coraggio lo spettacolo “Le Sedie” (in francese: Les Chaises) di Eugène Ionesco, nella traduzione di Gian Renzo Morteo e per la regia di Valerio Binasco, accolto felicemente dal pubblico del Teatro Vascello, ancora in scena fino al 6 marzo.
Al centro dell’attenzione il racconto, caldo e tormentato, dell’ultimo giorno di vita di due persone quasi centenarie, per l’esattezza di novantacinque e novantaquattro anni, imbruttite dalla vecchiaia e zoppicanti, goffe nelle loro posture dinoccolate, i cui animi continuano, nonostante tutto, a tenersi per mano. Un uomo (Michele di Mauro), Maresciallo d’Alloggio, vestaglia regale al posto della divisa, occhi sporgenti e capelli arruffati, e una donna (Federica Fracassi), trucco pesante a incorniciare il viso e parruccone stile elisabettiano, si ritrovano entrambi segregati in casa, a combattere contro la noia e il disagio della situazione vissuta, non rinunciando, tuttavia, ad un senso particolare del gioco e dell’umorismo. Ridono molto, sono complici i personaggi de “Le sedie”, opera definita dal suo autore come una “farsa tragica”, e che Binasco, con l’acume che lo contraddistingue, porta sul palco, non solo per mostrarne i tratti più assurdi, ma per parlare di amore, confessando quelle luminose “trafitture di tenerezza” umana, per usare parole care a Ceronetti.
I protagonisti, la moglie Semiramide e suo marito, sono legati da una serie di meravigliose debolezze, una lista di peccatucci, cifra distintiva della loro intimità, che per gli altri possono sembrare imperfezioni, ma che in realtà è ciò che li rende unici. Benedetti da quella speciale grazia della durata che ogni tanto cade sulle coppie, lei si presenta come una Santippe moderna, petulante e puntualissima, in ogni occasione, nel rimproverare al marito di non aver fatto carriera; lui, come un uomo solo in apparenza austero, ma che nella voce cavernosa e vibrata racchiude lo stato di angoscia e di smarrimento verso il vuoto in cui stanno sprofondando rapidamente.
I dialoghi per quanto astrusi sono pervasi da sprazzi di poesia e verità che danno i brividi. Ad esempio, quando lui si dispera per la vocazione infranta, ormai rotta, sentendosi orfano di questa Terra, e ancora quando lei, in preda ai singhiozzi della coscienza, ammette di essere un ramo spezzato sotto un carico di neve, non più capace di cogliere le rose della vita. Sui volti clowneschi e nello straordinario cercarsi degli sguardi, si legge al contempo tanta solitudine e voglia di vivere, che rende la messinscena esemplare, attraversata costantemente dalla lievità del pulviscolo, del religioso, come in un quadro del Beato Angelico. Sognano di ricevere qualcuno, di aprire le porte del loro piccolo mondo a degli ospiti. Li attendono, in uno scenario desolato, diroccato, apocalittico, per una cerimonia sacra, in cui un oratore professionista rivelerà con proclami filosofici il messaggio più importante per l’umanità. E gli ospiti arrivano davvero, noi spettatori non li vediamo, ma nella loro immaginazione esistono. Come ricordato dal regista: “Ionesco in quello che aveva scritto e che poteva essere a tutti gli effetti un’improvvisazione, non canta l’eroismo autistico delle persone, come se fossero murate dentro se stesse, ma gli concede la grazia di parlarsi, di essere un io e un tu, che costituisce poi il segreto di ogni felicità”.
Illusione, casualità, puntellano la trama e levano realismo allo spettacolo, come ben dimostra la pira altissima di sedie che rappresentano le sedie del mondo, tutti pezzi unici, installazione geniale di pieni e vuoti progettata da Nicolas Bovey, insieme all’uso di una luce diafana, irreale che lavora in contrasto con la materia della scena. E poi i costumi (Alessio Rosati) richiamo fortissimo al burlesque, al circo e al varietà, che esternano le ambiguità non risolte dei due protagonisti, lasciando allo spettatore spazio per il mistero. Di grande effetto il finestrone sullo sfondo che crea un’atmosfera più morbida e languida, ispirata alla stratificazione dei colori per velature di Rothko. Verso il finale i movimenti si fanno più concitati, quello che era stato un desiderio si trasforma presto in un incubo. Guardiani, vescovi, chimici, delegati, presidenti, commercianti, suore, alberghieri si affollano con le loro sedie, in attesa di ricevere il monito dell’oratore. Ma in questo spettacolo chi arriva è il pubblico, che si farà a sua volta portatore del messaggio. E l’aspetto più sorprendente del maresciallo d’alloggio e della sua compagna è la dolce ingenuità nel non rendersi conto che la colla del mondo è la stessa che ha tenuto uniti loro per anni, la tenace resistenza alle impervietà della vita, grazie al sentimento che vince ogni cosa, l’amore.
Diana Morea