“La ragione del male” – L’umanità di Rafael Argullol
“Dopo la brusca conclusione del banchetto, l’invitato, prima sicuro della sua sorte, si era visto trasformato in un cencioso mendicante a cui toccava nutrirsi delle briciole. E il mendicante si calava nella parte, adattandosi obbediente alla sua miseria appena inaugurata, senza smettere mai di sognare quel banchetto a cui, non molto tempo prima, credeva di partecipare”.
Tutto inizia all’improvviso.
Il male attacca una cellula e si propaga pian piano nell’organismo, ammorbandone l’intero sistema linfatico, giungendo così dalla singola cellula a tutte le cellule che lo compongono. Come un tumore, per lo scrittore filosofo catalano, il progresso, il consumismo hanno ammorbato l’umanità. “La ragione del male” (Lindau, Collana Senza Frontiere, ristampa 2019, pp. 266, €19,00) è stato scritto circa venticinque anni fa, ma i temi trattati sono maledettamente attuali. Scritto quando internet non era diffuso, o meglio non era alla portata di tutti oggi, costituisce l’appendice di cui ognuno di noi non può fare a meno. Questo romanzo considerato quasi esagerato agli esordi, oggi è l’istantanea del mondo reale. Argullol scrive, ma il suo romanzo è infinito, poiché non finisce mai di dire ciò che ha da dire.
L’inizio vede una città antropomorfica che, proprio come un un organismo vivente, vede le sue cellule – gli esanimi – ammalarsi, di un male inspiegabile e incurabile. Il male appesta così la città senza nome, che può essere qualsiasi città, una città che si trova a vivere un incubo in cui tutti hanno un ruolo, senza esclusione, perché tutti sono stati complici del rifiuto verso quel mondo che li ha generati e che adesso li avvolge di nebbia. L’uomo è sordo e cieco, per capirne l’entità si pensi alla Pietà di Michelangelo, tutti ne guardano le fattezze esteriori, ma l’anima dell’opera che li scultore ha trasmesso, che consiste nella rappresentazione del dolore di una madre per la perdita del proprio figlio, nessuno la vede più. L’uomo dunque, per pigrizia oppure per deviazione, diventa apparentemente libero. Ha ceduto le sue responsabilità, divenendo schiavo del sistema, la regressione gli ha invaso la mente e lui non si ribella. I cellulari, internet di cui non possiamo più fare a meno ci sorvegliano, i social sono il nostro incantesimo collettivo che permette allo stregone di turno di studiarci e deviarci.
È sparito l’occhio dell’uomo che scruta, ricorda. È sparita la memoria, tutto è superficiale perché senza memoria non può esserci critica e senza critica non può esistere libertà, ecco perché nel fotografo Victor Ribera è improntata la memoria degli eventi, egli infatti è l’unico a ricordare gli esanimi,ma solo perché ha immortalato il loro dramma.
Per la collettività, in cui l’ignoranza ha generato l’odio, gli esanimi si trasformano da ammalati a nemici da sconfiggere. Dunque, proprio come un criceto, vittima della ruota all’interno della gabbia in cui vive, l’uomo continua la sua distruttiva corsa, senza riuscire a vedere ciò che esiste al di là delle sbarre che lo imprigioneranno per sempre. In tutto il romanzo, l’unica a trasmettere un senso di positività è Angela la restauratrice, l’unica ad anelare alla speranza di salvezza, nonostante la catastrofe che divaga nella città. È come se Argullol facesse volare la sua colomba portatrice di salvezza su un’Hiroshima devastata.
Marisa Padula