LA QUARTA VIA DI GURDJIEFF
“Le dirò un segreto: lo sforzo personale non è mai possibile tutto in una volta: è necessaria una preparazione. Fare fatica è necessario. Finché non ci riesce, uno dimentica, ricorda, dimentica, ricorda. Ma quando lei è seduta, calma, può pensare e cominciare a fare”.
La trascrizione integrale degli insegnamenti trasmessi a Parigi in Rue des Colonels-Renard 1941-1946 di Georges Ivanovič Gurdjieff, pensatore di origine armena, educatore oltre che filosofo, mistico, danzatore e maestro di danza, non possiede, nemmeno lontanamente, i tratti del manuale di facile consultazione.
Al lettore inesperto, come per quello più addentro ai temi dell’umana psiche, i due volumi di “Incontri con Gurdjieff” (Tlön, pp. 204/152, euro 12,90 cad.) si presenta come lettura impervia, fuori dal senso comune che irretisce senza pietà quasi schiaffeggiandoci (per apparente veemenza argomentativa) nella precisa volontà di smontare il mito dell’unità della mente di cartesiana, di antica quanto insoddisfacente memoria, inflessibile “cogito” senza via di scampo esistenziale. Gurdjieff ci trascina per sentieri di significato lontani dalla nostra ufficiale tradizione di pensiero, dipanando concetti ribaltati nei dialoghi degli “incontri del giovedì”, fra tre cardini del sistema- essere umano: il centro istintivo-motorio, il centro emozionale e il centro intellettuale. Nel suo intento urge riaffiancarli armonicamente verso il traguardo dell’autoconsapevolezza sia individuale sia reciproca. Attraverso consigli, esercizi e pratiche, egli mostra ai suoi adepti la via dell’autorealizzazione, una via non transitoria verso la felicità, fuori dalle illusioni, mossa ferocemente a disinnescare meccanismi automatizzati del pensiero che non portano beneficio alcuno. Una eudaimonia persa nella notte dei tempi, da ricordare attraverso tutti i sensi, offuscata nei meandri dei condizionamenti che la vita sociale sovrappone alla coscienza tra abitudini e credenze sedimentate durante la crescita individuale. È implicita, in questa visione, una lettura tautologicamente insoddisfacente, inutilmente dolorosa, difettosa in sé, del pensiero contemporaneo all’autore. Essa, infatti, non è in grado di offrire soluzioni durevoli ai travagli umani per un difetto di metodo: l’identificazione di ognuno con l’io della mente, svuotata e orfana del più profondo senso dello spirito.
“Deve lavorare” suggerisce “uccida i cani che sono dentro di lei. Lei recita il suo ruolo solo intellettualmente, ma se ne dimentica molto in fretta e quindi torna ad essere una nullità. Il suo compito sarà quello di ricordare più a lungo”.
Il testo, superati i primi ostacoli di lettura, diventa via via avvincente, come una maratona, e si legge più agevolmente mettendo in campo stupore e intuizione interpretativi. Ci conduce nel cuore dei temi dell’esistenza, tra locuzioni assurde e paradossali, smascherando anche, attraverso originali metafore, l’impianto blindato delle false personalità che i molti io ci impongono di indossare e di costruirci, senza coscienza né conoscenza vera di noi stessi.
“Abbia la sensazione di se stesso il più possibile, allora sarà in grado di ricordarsi di sé internamente, allora il suo futuro migliorerà”.
Lucrezia Zito