La passione per la scrittura che porta alla musica e al primo album “Quasi mai” – Intervista al cantautore romano Giorgio Moretti
Cantautore romano, classe 1997? Si chiama Giorgio Moretti e il 19 febbraio ha pubblicato il disco d’esordio “Quasi mai” (Camarilla / Believe), anticipato dai singoli “Radical love” e “Serio?!”. Dopo il liceo si trasferisce a Torino per tre anni per frequentare il corso di scrittura creativa e sceneggiatura alla Scuola Holden. Sarà al suo ritorno alla capitale che inizierà a lavorare ai suoi brani, grazie anche all’incontro con il produttore Martia Crescini, in arte Meiden. Per saperne di più su “Quasi mai” abbiamo fatto qualche domanda a Giorgio Moretti.
Dopo il liceo ti sei spostato a Torino per frequentare la Scuola Holden, che tipo di sogni avevi allora? Come sei sbarcato nel mondo della musica?
C’è sempre stata la prospettiva di voler scrivere, cercare di tradurre le emozioni in qualcosa di più concreto che si potesse “passare da una persona all’altra”. Mi sono trasferito a Torino per questo motivo, ma stavo già sviluppando la passione per la musica: avevo iniziato a suonare da dilettante da un po’ di tempo. Durante gli anni a Torino ho conosciuto persone che mi hanno fatto avvicinare sempre di più a questo mondo e ho iniziato a scrivere le prime canzoni. Quando sono tornato a Roma ho voluto provare a dar loro un volto più preciso, da qui l’esigenza di fare tutto quello che ho fatto e arrivare all’album per trovare un volto preciso per interpretare queste emozioni.
Quindi sei arrivato a scrivere canzoni attraverso i corsi di scrittura creativa e sceneggiatura?
Sì, assolutamente. Ogni tanto penso che nei film c’è sempre una colonna sonora che deve dare il senso alle immagini sullo schermo: quando scrivo le mie canzoni mi sembra di vedere un film nella mia testa per il quale devo trovare la colonna sonora adatta per le immagini di quel momento. È un processo inverso, ma simile.
Il tuo ultimo singolo “Radical love” rappresenta bene questo processo, non è vero?
“Radical love” è il brano in cui questo meccanismo di raccontare le storie si vede di più, soprattutto perché nel finale tolgo un po’ il senso di finzione a tutto quanto, mi metto in mezzo anche io per raccontare e uscire come narratore.
Alla fine racchiudi la morale nella frase: “Non puoi essere un artista se non sai il tedesco”, tu sai il tedesco?
No, ovviamente (ride). Cerco di trovare una chiave, quando possibile, per leggere la realtà in modo comico e irrazionale. È il senso che mi porta a pensare per dare una spiegazione alle cose che mi accadono.
I brani del disco sono stati tutti composti durante il lockdown?
La maggior parte. Durante il periodo del lockdown ho scritto tanto.
Avresti comunque scritto questo disco o pensi che, in una situazione normale, sarebbe stato diverso?
Il progetto si stava avviando, ma forse in un altro momento storico avrebbe preso una forma diversa. È indubbio il fatto che quello che abbiamo vissuto tutti sia entrato in queste canzoni e nel mood generale che ho cercato di esprimere nell’album. Penso che tutto quello che c’è, soprattutto nei testi dei brani scritti durante quel periodo, nasce dall’esigenza di voler immaginare quello che accadeva prima o quello che avrei voluto accadesse in quel momento. Il fatto di rimanere chiusi a casa ha sviluppato in maniera singolare la mia immaginazione.
Come hai incontrato Mattia Crescini, in arte Meiden?
Il progetto di questo disco e di lavorare su alcuni brani che avevo già scritto implicava trovare un produttore con cui dialogare musicalmente. Casualmente ho incontrato Mattia, è stato un colpo di fulmine. Ho capito che musicalmente, per quanto diversi, dato che i lavori di Meiden erano più inerenti alla musica elettronica e io più al cantautorato chitarra e voce, c’era una coesione particolare che doveva essere sfruttata. Secondo me questo ha portato al fatto che nell’album siamo riusciti a creare un mix di generi che era quello che col tempo avrei poi voluto sviluppare.
Ho notato questo mix di generi nei brani “16:9” e “Ucciderci”, che hanno una vena elettronica più evidente. Avevi intenzione di perlustrare queste sonorità quindi?
Penso che nell’album si trovino tutti i mondi che mi piace esplorare e che vorrei esplorare nel corso del tempo. Parlando di esperimenti, spero che porteranno a dei risultati e a una nuova consapevolezza per creare qualcosa sempre su quel genere. Penso che, come anche altri brani, il mio intento è mantenere questa forma ibrida di generi che si mischiano tra di loro e che non hanno una definizione, perché non la cerco. Cerco invece l’emozione, che sia con la chitarra e la voce, o la cassa dritta e l’elettronica.
Quando hai iniziato suonando la chitarra?
Ho iniziato a suonare perché il mio compagno di banco del liceo suonava il pianoforte jazz. Passavo i pomeriggi a casa sua (senza suonare nulla), poi un giorno mi ha detto “prendi questa chitarra, ti insegno il giro di do”, e da lì sono partito.
Con il canto invece?
È sempre venuto istintivamente, ho sempre cantato. Quando stavo a Torino abitavo con alcuni coinquilini, tra cui un ragazzo molto bravo a suonare la chitarra. Dato che io ancora non ero così bravo gli lasciavo lo strumento e io cantavo: improvvisavamo concerti casalinghi. Anche se in modo autonomo, mi sono esercitato tanto.
Il brano “Napoli” racchiude nei versi il titolo del disco. Cosa rappresenta per te questa città?
Tra tutti i brani dell’album è quello che racchiude un senso più malinconico. Per me Napoli, un po’ come Roma, racchiude questa malinconia. È anche una città ricca di contrasti; ci andavo spesso in tempi pre Covid, per scampagnate e gite, e racchiude il conflitto tra opposti, per questo è uscita in maniera istintiva.
Per il brano “Lolita” hai preso spunto da una notizia che hai letto sul giornale, cosa ti colpì di quella vicenda?
È nato da un’esperienza semi personale: questo fatto di cronaca riguarda il liceo in cui è nato e scoppiato lo scandalo delle baby squillo, almeno di una delle due. Conoscendo da vicino questa ragazza per me fu un bel colpo. Scoprire una cosa del genere a quell’età fu un’esperienza particolare e mi è rimasta dentro. C’era bisogno nella mia testa di elaborare quel ricordo. Partendo da un tema così delicato volevo trattare tutto nel modo meno crudo possibile e mi è piaciuto giocare con immagini che rimandassero a quel mondo in modo non troppo diretto.
Che progetti hai adesso?
Adesso è appena uscito il disco, tornerò presto in studio per lavorare a nuovo materiale. Sono sempre in cerca di innovazione e nuove situazioni.
Hai già scritto qualcosa?
Qualcosa in cantiere c’è, ma bisogna vedere se con il tempo regge, dato che sono molto critico nei miei confronti.
Cosa ne pensi dei concerti in streaming, ne farai qualcuno?
In questo periodo mi sono dedicato a qualche live session registrata. Un concerto è un momento di aggregazione e comunità e condivisione reale e penso che con lo streaming, a distanza, sia più difficile. Con i videoclip è più facile arrivare alle persone.
Hai seguito il Festival di Sanremo?
Sì.
Per chi hai fatto il tifo?
Sono un osservatore esterno e non ho fatto il tifo per nessuno in particolare. Per me la sorpresa più grande è stata la canzone di Bugo, ho trovato il testo molto interessante, mi ha convinto.
Tra le nuove proposte invece?
Conosco solo Davide Shorty e Wrongonyou, mi è capitato di vederli live e sono due grandi cantanti ed esecutori.
Che tipo di musica ascolti?
Molto varia, come si trova varietà nel mio disco. Ascolto generi e stili diversi in momenti diversi, posso ascoltare musica folk e il giorno dopo musica elettronica oppure musica funky blues di un’altra epoca. In realtà non ho uno stile ben definito: così come ascolto i grandi cantautori italiani mi piace anche la scena indie americana, un melting pot da cui cerco di pescare tutto ciò che è interessante.
Roberta Usardi
Fotografia di Daniele Panis
https://www.instagram.com/scrittodagiorgiomoretti/