“La malaintesa”, verso un paesaggio leggibile
“La malaintesa” (Barta, pp. 234, euro 14) è il nuovo romanzo di Yolaine Destremau, che dopo un’infanzia nomade tra l’Africa del Sud, l’Argentina e le estati in famiglia a Cognac, oggi divide la sua esistenza fra Parigi e Lucca. Per una decina d’anni è stata pittrice, poi si è consacrata interamente alla scrittura.
“Perché no, no, io non sono una donna maltrattata. Non io. Scaccio quest’idea con tutta la mia forza. Non ho il profilo di una donna che subisce violenze, non sono nata per questo. Rifiuto che mi si metta in questo contenitore, quello delle vittime. Io non amo le vittime, mi piacciono solo le eroine. A ben pensare, preferisco addirittura essere un’alcolizzata che si è ferita cadendo da sola, in casa, piuttosto che una donna maltrattata.”
Cécilia, figlia e sorella amata. Avvocato di successo, impegnata in cause importanti, pronta a tenere l’arringa. Sa cosa fare, come muoversi, cosa dire per convincere Corte e giurati. La sua voce è ferma, dosa alla perfezione parole e silenzi. L’aula è il suo regno.
Cécilia, paziente stesa su un letto d’ospedale. Ha fratture multiple, costole incrinate, ferite alla testa. Sotto morfina per alleviare il dolore, non ricorda che cosa le sia successo. Il marito sostiene che è inciampata su un tavolino del soggiorno. Che è un’alcolizzata, che spesso urta i mobili, cade.
Due donne, eppure la stessa.
L’amore con Abel sboccia quando sono entrambi giovani. Si sposano presto, la casa, i figli.
Tutto normale all’apparenza, sereno, quasi invidiabile visto da fuori. Ma dentro la loro storia emerge sempre più incontrollabile la vera natura di Abel.
“Era quel sentimento forte di cui avevo sentito parlare, il sentimento di essere scelta. Il suo sguardo solo per me, l’accenno di un gesto solo mio.”
Destremau ci racconta la bellezza di essere scelte a cui spesso si lega inesorabilmente tutta la forza della negazione, dell’incredulità per chi abbiamo davanti, per chi lasciamo che ci faccia diventare. Una negazione che ti fa andare avanti, anche se verso una direzione sbagliata, ma avanti. Perché indietro, fermi, fa paura. Ci racconta l’assuefazione al punto da non voler vedere, e di vedere ma comunque di non poter fare. Perché lui ha ragione e la sua collera è una prova d’amore.
“Poi lo schiaffo ha attraversato l’epidermide e si è propagato dentro di me, colpendo ogni elemento del mio corpo, uno dopo l’altro. Le ossa, le arterie, le vene, gli organi interni, i nervi, i tessuti, i muscoli, i quattro lobi del cervello, sino ai ventricoli del cuore, dove ha terminato la sua corsa. Ogni cellula era stata toccata. Mi aveva dato uno schiaffo. Non l’avrei dimenticato mai. Ma nonostante tutto questo, il senso di colpa è spuntato immediatamente (…) Avevo creduto che mai avrei dimenticato quel primo schiaffo, che fosse inciso nel mio corpo per sempre. Ma il cervello ha inestimabili e infinite risorse di sopravvivenza.”
Ci racconta di come al primo schiaffo sia già tardi, della difficoltà di prendere coscienza subito, di quella presa implacabile e irrimediabile che ti fa continuare ad andare avanti solo per evitare le scenate. Sentirsi spogliate di tutto, sentire di non valere niente. Eppure, ancora, la difficoltà di riconoscersi come vittima.
“C’erano ancora questi brevi momenti felici. Ora lo so, era solo la sua presa su di me, la sua sopraffazione che rosicchiava la materia. E si leccava i baffi. Di quando in quando si calmava, mi concedeva una tregua, poi riprendeva il suo lavoro come un coleottero, deponendo larve e uova nei minuscoli solchi del mio cervello.”
Destremau ci racconta tutto questo con ritmo, ci coinvolge, ci fa odiare Abel, ci fa incitare Cécilia, ci fa incazzare per la violenza ingiustificata e per la debolezza, e ci trascina, inesorabile, fino all’ultima pagina, a quella che vorremmo fosse sempre la fine: una libertà vera, in cui il paesaggio è finalmente di nuovo leggibile, i contorni delineati.
Laura Franchi