“La libertà del fotografo” – Dialogo con Andrea Attardi
Abbiamo incontrato Andrea Attardi, scrittore, fotografo, attualmente titolare della cattedra di Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Roma, e abbiamo fatto due chiacchiere sul suo ultimo libro “La libertà del Fotografo”, pubblicato a dicembre 2020 dalla casa editrice Postcart (2020, pp. 208, euro 25).
Un’opera letteraria che descrive cosa è stata la fotografia e la sua attuale direzione: dagli albori del fenomeno fotografico alla sua magia – la capacità di accompagnare e muoversi all’interno della storia, dell’esistenza degli uomini e dei luoghi – alla constatazione che il mestiere del fotografo non esiste più; dalle riflessioni sulla meccanica e la luce, alla variabile tecnica quasi preponderante nel voler definire la simbiosi tra autore e apparecchio fotografico. Infine, un viaggio nell’ambito della fotografia italiana, in realtà una storia con tante storie, vista con la lente d’ingrandimento delle correnti del neorealismo e del futurismo di Filippo Tommaso Marinetti e delle riflessioni di due importanti personaggi della cultura: Benedetto Croce, filosofo che dedicò nella sua opera poco spazio alla fotografia, considerandola alla stregua di un ludico passatempo, e Antonio Gramsci, intellettuale la cui opera non si occupò mai espressamente del mondo visto attraverso le immagini ma che, di fatto, attraverso le questioni sollevate dalle osservazioni sulle tradizioni popolari, aprì la strada alla moderna fotografia in Italia.
Questo testo rappresenta un excursus storico necessario sul rapporto della fotografia con la pittura, la scultura, la grafica, la letteratura, il cinema e i vari innesti con le avanguardie artistiche. E’ anche un testo vivace che unisce, alla serietà dei temi trattati, un omaggio alle icone dei grandi maestri della fotografia, attraverso le illustrazioni di Claudio Corrivetti.
Uno dei capitoli del libro La prima magia, esordisce così:
“Non è per nulla semplice iniziare un discorso sulla fotografia”
Voglio iniziare con una domanda: perché “La Libertà del Fotografo”? La scelta di questo titolo mi sembra audace, ma soprattutto, come si coniuga questa libertà con il flusso di immagini che si riversano ogni giorno sui social? A una democratizzazione dei mezzi e delle tecniche fotografiche corrisponde una democratizzazione della fotografia?
Ho sempre pensato che impugnare e guardare il mondo attraverso una macchina fotografica sia un atto di libertà. Fin da quando, da adolescente, iniziai ad interessarmi alla fotografia. Era, ed è tuttora, una possibilità per uscire da quella prigione che è la vita, con le sue regole e i suoi tragitti non sempre agevoli. Prova ne sia che chiunque, quando “raccoglie” il proprio bottino fotografico, ha una sensazione di felice consapevolezza, perché ha incamerato alcune visioni che altrimenti sarebbero andate perse. Di qui non ho dubbi nel ritenere che la dilagante diffusione del mezzo fotografico (e quindi del sistema digitale), sia un veicolo di democrazia, dove ognuno può fotografare appunto più “liberamente”. Del resto non vi è più la necessità di conoscere approfonditamente la tecnica, questa è stata inglobata da tutti i servomeccanismi automatici della digitalizzazione dell’immagine. Certo, poi bisogna vedere l’uso che se ne fa di tutti i trilioni di immagini che vengono scattate ogni anno nel nostro pianeta, ma questo è già un altro discorso, che sottende il dilemma se voler diventare autori oppure fermarsi alla sola dimensione di svago o passatempo.
A pag. 27 del tuo libro scrivi “ …all’uomo mancava un’invenzione meccanica che potesse intrappolare per sempre questa variabile di tutti gli attimi di una giornata e di ogni circostanza: la luce. Catturando la luce in una scatola meccanica, ovvero la macchina fotografica, gli uomini hanno potuto fermare l’istante di un fatto, di una situazione, di un’atmosfera. In questa cattura c’erano gli uomini stessi e i loro oggetti, i loro luoghi e le loro abitudini. Ecco, questa invenzione così dirompente: …il poter rivedere e ricordare attraverso l’innegabilità incontestabile dell’immagine”. Trovo splendido questo passo, fa riflettere sul tempo e sulla visione, e a tal proposito mi rimanda ad un’opera letteraria di Anais Nin, La Seduzione del Minotauro, in cui si parla di visione e di cui riporto un estratto: “ I nativi non avevano ancora imparato dall’uomo bianco le sue invenzioni per viaggiare lontano dal presente, la sua capacità scientifica di analizzare il calore come una sostanza chimica, di astrarre gli esseri umani in simboli. L’uomo bianco ha inventato lenti che rendono le cose troppo vicine o troppo lontane, macchine fotografiche, telescopi, cannocchiali, tutti oggetti che mettono un vetro fra la vita e la visione. Era l’immagine che si tentava di possedere, non il tessuto, il calore dell’essere, l’umana vicinanza. I nativi vedevano solo il presente”. Mi piacerebbe sapere cosa pensi di questo parallelismo. Esiste un vetro o velo tra la vita e la visione? Non credi che, in fondo, la fotografia sia un’invenzione audace e presuntuosa da parte dell’uomo che vuole catturare l’entità che più di tutte gli sfugge e su cui non ha padronanza: il tempo?
Il parallelismo con Anais Nin, al quale ti riferisci, ci sta tutto. Questa invenzione ha sconvolto gli ultimi due secoli. Perché ha fatto vedere di tutto: l’amore, la dolcezza, la vita, ma anche il livello di nefandezza al quale può arrivare il genere umano: infliggere la morte ad altri esseri umani con una mostruosa vocazione genocida. Grazie alla testimonianza fotografica possiamo capire quel che è successo veramente, e questi eventi riportano una datazione, cioè la scansione temporale, indispensabile per classificare il contesto di un’immagine. Ma naturalmente è necessario distinguere la sfera pubblica e quella privata, quando parliamo di fotografia. Quantitativamente le fotografie a carattere personale o familiare sono molte di più: e proprio lì si può capire che questo apparecchio fotografico ha insegnato agli uomini il valore dell’attimo. Nel senso di coltivarlo, accarezzarlo e farlo proprio per l’eternità. Abbiamo una possibilità inestimabile: quella di fermare la fuggevolezza dell’esistenza, di racchiuderla in un rettangolo e di poterla rivedere tutte le volte che lo desideriamo, proprio per non fare annegare tutto nella labilità della memoria. Quel vetro dunque è a mio avviso provvidenziale, perché restituisce le visioni che a volte, per fretta o per distrazione, non riusciamo a scorgere in quel difficile caleidoscopio che è il nostro sguardo, troppo veloce e spesse volte per nulla meditativo.
Cosa è oggi la Fotografia, esiste ancora l’atto fotografico? Si può affermare veramente che tutti desiderano fotografare o, semplicemente, ciò che viene quotidianamente praticato con gli smartphone è un escamotage, che nulla ha a che vedere con la Fotografia?
Sinceramente non demonizzerei gli smartphone. Sono ottimi dispositivi che risolvono mille frangenti, in cui c’è il bisogno di un’immagine da mandare subito per meglio spiegare una cosa. Qui, a tal proposito, mi ritornano alla mente le parole che Mario Giacomelli mi disse nel lontano 1983. Per lui non c’era bisogno di andare in capo al mondo per ottenere delle buone fotografie. Sì, era proprio un teorico del guardare “sotto casa”, perché a suo avviso era solo una questione di sensibilità; se la possedevi, attraverso la passione per tutte le altre forme d’arte (cinema, pittura, letteratura, poesia) allora potevi “vedere” ciò che gli altri non avrebbero mai visto. Per cui non è affatto raro trovare delle immagini straordinarie anche con gli smartphone: alcuni miei studenti denotano una capacità fuori dal comune anche con questi mezzi che fanno parte ormai della nostra quotidianità. Cos’è oggi la fotografia? Una domanda senza dubbio affascinante, che può prestarsi però a decine di interpretazioni. A mio avviso è “un’arte dell’insistenza”, nel senso che il compito primario per un autore fotografico è quello di non accontentarsi mai, e quindi di ricercare incessantemente (se non ossessivamente), la sua verità indagatrice del mondo e delle cose.
La Morte di un Miliziano di Robert Capa, uno degli scatti più celebri della Seconda Guerra Mondiale, illustrata e utilizzata come copertina, rappresenta una provocazione che lascia sottintendere che, in fondo, la fotografia si è sempre mossa in un terreno irto e a metà strada tra realtà – artificio – finzione, oppure, è possibile affermare che da sempre e dunque non solo con l’avvento del digitale e l’epoca dei selfie e degli autoritratti, la fotografia si è sempre nutrita di artificio, quasi a voler esibire la sua natura ‘doppia’?
Questione quanto mai controversa. Sappiamo che la foto di Capa era costruita, insomma era una messa in scena. Ma nell’immaginario collettivo e psicologico ci risulta piena di autenticità, perché è la testimonianza che in guerra si può morire per davvero e non per finta. Allo stesso tempo mi viene da pensare che tutta la fotografia è una messa in scena e non una rappresentazione della realtà. A prima vista può “sembrare” la realtà, ma chi ha provocato e sistemato eventi, scene, scenari, circostanze, che poi sono state fotografate? Sempre lui, l’uomo. E in questo senso possiamo parlare di un artificio che in non poche occasioni sconfina nell’ambiguità. Vedere non vuol dire mai sapere completamente in fotografia. Per il semplice motivo che la vera natura “doppia” della fotografia è data proprio dal fotografo stesso: lui e soltanto lui decide cosa includere ed escludere in un’immagine, potendone quindi alterare il significato. Lo spettatore, cioè chi guarda la fotografia, può solo innescare le sue facoltà immaginative, ma non potrà mai conoscere il luogo e il contesto in cui ha operato il fotografo.
“Quel che rimane certo, è che vuoti da colmare non ve ne sono più. E le possibili intersecazioni sono andate via via esaurendosi. Tutto è stato fotografato”. Così scrivi in chiusura del tuo libro, a proposito di un ritorno al Pittorialismo e al Surrealismo da parte di fotografi che imitano in maniera spregiudicata gli artisti di un passato, senza averne vissuto la sostanza, un po’ come gli Aedi, ciechi perché cantano i fatti del passato senza esserne stati testimoni, senza averli visti: una cecità metaforica, quindi, più che fisica. Alla luce di questa tua affermazione, come ti relazioni in tal senso con i tuoi studenti, intendo dire è una verità/consapevolezza che puoi trasmettere loro che si preparano ad affacciarsi sul mondo artistico e lavorativo, oppure pensi che possa rappresentare una provocazione, uno stimolo?
Le nuove generazioni non sono più quelle di 37 anni fa, quando iniziai a insegnare Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Palermo. La fotografia era un difficile mistero da districare. Oggi invece, na mutazione genetica, dovuta alla globalizzazione, ha fatto breccia negli studenti del nuovo millennio. Circa la fotografia esistono dei giovani pieni di entusiasmo e talento. Ma non è innato: lo si può perseguire solo con lo studio continuo della storia della fotografia e dei tanti autori che ci hanno preceduto. Poi occorrono due condizioni: in primis, l’insistenza nel lavoro alla quale accennavo poc’anzi, e contemporaneamente non delegare la creazione fotografica solo alla tecnologia. Un computer con i relativi programmi di elaborazione fotografica non sarà mai un interlocutore, proprio perché non parla. Ci potrà sembrare che esegua le nostre intenzioni, i nostri comandi, ma non è così, è un’illusione: il digitale in fotografia ha dei percorsi prestabiliti da chi ha strutturato certi determinati programmi. Ai quali interessa solo la propria esattezza fine a sé stessa, non tenendo affatto da conto il pensiero elaborativo di un autore. Paradossalmente sarebbe preferibile “inciampare” nell’errore fotografico; almeno lì, il nostro istinto creativo e percettivo può affrancarsi da un tecnicismo troppo esasperato. Ecco, in definitiva la prima raccomandazione che esprimo agli studenti: mai abbandonare la parola, l’arte del confronto verbale che si può avere unicamente fra i nostri simili, e non delegando mai nulla ad una “scatola” preconfezionata da altri.
Chiudo con una riflessione tratta dal libro Scorze di Georges Didi-Huberman, ma che sotto certi aspetti può rappresentare una questione aperta, qualcosa da chiedersi e in divenire: “ Non si può mai dire: non c’è niente da vedere, non c’è più niente da vedere. Per saper dubitare di quello che si vede, bisogna saper vedere ancora, vedere nonostante tutto. Nonostante la distruzione, la cancellazione di ogni cosa. Bisogna saper guardare come guarda un archeologo”.
Giusi Bonomo