La figlia del reggimento di Barbe & Doucet per il Teatro Regio di Torino
Il penultimo appuntamento della stagione di quest’anno al Teatro Regio di Torino, dopo Il flauto magico e La sposa dello zar di Rimskij-Korsakov, ha visto protagonista il genio comico e coinvolgente del Donizetti anziano, ormai esperto, ultimo rappresentante di un genere specifico dopo la morte di Bellini e il prepensionamento volontario di Rossini. Si tratta de La figlia del reggimento, composta a Parigi fra l’estate e l’autunno del ’39 e andata in scena per la prima volta all’Opéra Comique di Parigi il febbraio dell’anno successivo, dove l’unico a uscirne indenne fu per l’appunto il compositore: i librettisti (Jean-François Bayard e Jules-Henri Vernoy de Saint-Georges) furono criticati per la scelta del soggetto; non piacquero le scene né i costumi. A Donizetti veniva rimproverato solo un certo servilismo nei confronti della Francia.
La trama non è particolarmente audace: una fanciulla s’innamora di un ragazzo che la corrisponde ma, guarda caso, fa parte dell’esercito nemico. I francesi hanno invaso il Tirolo, siamo alla fine del ‘700, e tra tutti i reggimenti ve n’è uno speciale, il ventunesimo, i cui soldati hanno cresciuto un’orfana, ora vivandiera; ma anche figlia, moglie e madre di ogni componente: la carica erotica dietro immagini e dialoghi è innegabile, ma non è questo il contesto per scendere in giudizi psicologici. Maria (soprano) conosce Tonio (tenore), ma Sulpice, il sergente, non vuole che si frequentino. La storia si dipana da sé: il lieto fine pare incombere dolcemente sul pubblico, galleggiare sugli spalti: o forse sono le musiche, tanto suggestive quanto bonarie, a lasciar presagire come il buon senso prevarrà. L’amore verrà rispettato, e parallelamente si scoprirà anche la vera storia della protagonista, e la sua parentela. Sembra quasi che non ci sia un vero nemico, e in effetti a livello narrativo non c’è: la resistenza di Sulpice contro l’unione si esprime, dopo le prime invettive, in toni quasi affabili, come un genitore che a livello inconscio è perfettamente consapevole di non poter più comandare.
Lo spettacolo, coprodotto con La Fenice di Venezia, porta la firma di due artisti francesi, André Barbe e Renaud Doucet, alle prime armi col compositore bergamasco (unica eccezione, un Don Pasquale) ma forti di un curriculum rispettabilissimo, con oltre quaranta allestimenti applauditi in tutto il mondo, tra i quali peraltro figurano parecchi titoli di Offenbach, donizettiano per eccellenza. La regia di Barbe & Doucet, i quali hanno curato anche costumi e scene, ha previsto innanzitutto un ricamo aggiuntivo alla trama stessa: durante l’ouverture alpina viene proiettato sul sipario un filmato recitato (per la regia di Guido Salsilli), dove Maria, ormai anziana, è in casa di riposo e riceve i discendenti, ai quali racconta la sua vita. Sono immagini commoventi: nipoti e pronipoti ascoltano, ma interloquiscono pure. Imparano. Più volte l’inquadratura ritorna e indugia sul comò della stanza, scrigno dei ricordi, wunderkammer biografica. Oltre l’abat-jour e la statuetta della Madonna, ecco un orologio bomboniera a forma di baita tirolese; e poi ancora: il paracetamolo, un carillon, un filo di perle, un mazzo di carte, un puntaspilli, gli integratori, una stilografica, un orologio da panciotto. L’ouverture è terminata, il sipario si alza ma il comò è ancora lì, ingigantito in una impeccabile scenografia, dove non c’è posto per soldati veri. Solo soldatini. È un ricordo, una storia dentro una storia nella storia. Non c’è realismo, per fortuna, perché sarebbe fuori posto: anzi, è una metafisica lieve e festosa a impregnare l’allestimento; c’è del fiabesco, del folcloristico e, volendo peccare di pignoleria, qualche traccia di kitsch. Un discorso a parte meritano i costumi, che partono sgargiantissimi, pazzeschi: latex ovunque, non solo per il coro delle donne, ma anche per il prete, con una talare che ricorda Lady Gaga. L’esercito in velluto a coste, la protagonista coi calzoni, i nobili come vecchi col girello, e poi lei: la Duchessa di Krakentorp, con tre, quattro cambi d’abito, ognuno più squillante del precedente; un lungo cammeo-riempitivo affidato alla maestria di Arturo Brachetti, qui collaboratore speciale, che si è cambiato alla sua maniera per poi concludere in bellezza col valzer Ciribiribin, una canzone folk piemontese del 1898.
La direzione dell’orchestra, come sempre in ottima forma, è nelle mani di Evelino Pidò, torinese, esperto di belcanto, il quale ha saputo imporsi come perno d’attrattiva anche per coloro che forse non condividono la situazione estetica scelta per quest’allestimento. Ciò che la sua bacchetta ha saputo riproporre è l’essenza di quella duttilità tutta donizettiana per cui possono coesistere, quasi in pace, la guerra e l’amore, i vecchi e i giovani, le regole e il superamento delle stesse. Noi abbiamo assistito alla replica di sabato 20 maggio, con Caterina Sala e Pablo Martinez nei panni dei due giovani: lei, in particolare, ha colmato il teatro non solo col volume, ma anche in termini di interpretazione e virtuosismo. Con loro sul palco, anche Manuela Custer nei panni della Marchesa di Berkenfield, Simone Alberghini per Sulpice e Guillaume Andrieux, Hortensius.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Michele Crosterà