“La febbre”: un attacco febbrile al capitalismo dei nostri giorni
“Mi sono detta che in teatro dovremmo parlare dei nostri privilegi che continuano a schiacciare le vite degli altri. Mi sono detta che in teatro non dovremmo più parlare a vanvera, solo tra noi. E mentre me lo dicevo ho incontrato La Febbre”.
Rimbalzano all’occhio le parole dell’attrice Federica Fracassi, raccolte nell’opuscolo de “La Febbre”, pièce a tinte scure tratta dal testo di Wallace Shawn, per la regia di Veronica Cruciani e la traduzione di Monica Capuani, in scena dal 23 al 28 novembre al Teatro India di Roma. Un monologo concepito dallo statunitense Shawn, intorno agli anni Novanta, e che ritorna a bomba in tutta la sua cocente attualità, smascherando gli atroci aspetti di una economia ghigliottina, dove chi ha più denaro comanda il destino degli altri. La protagonista, una borghese cinquantenne, avvolta in un trench zebrato, sopra un elegante abito olivastro, e con delle scarpette color argento, irrompe dalla stessa porta attraversata pochi istanti prima dal pubblico, e si rivolge con un approccio diretto e spiazzante ai presenti: “Avete mai avuto degli amici poveri?”. Un quesito all’apparenza lecito che assume, tuttavia, una connotazione ironica in bocca a una donna benestante, preda ora di una strana farneticazione.
La vicenda si snoda, nel silenzio che precede l’alba, in un hotel di un paese diseredato e lontano, afflitto da una cruenta rivolta. In un clima cupo, a tratti soffocante, la donna riguarda indietro ad una vita di agi e luccichii, resa possibile dalla miseria degli altri. Il suo vaneggiare procede su un doppio binario stile “Mulholland Drive”, un “fuori” dall’incubo, in cui l’attrice è presente a se stessa. E un “dentro”, in cui il piano inclinato del pavimento del bagno, su cui si regge l’intera scenografia, si fa metafora dello strapiombo interiore in cui è precipitata la donna. Ha l’andatura di chi fatica a reggersi in piedi la Fracassi, e alterna, così, in una recitazione serrata, barlumi di lucidità, in cui ricorda quanto le piacesse da piccola scartare regali, e di delirio, entrambi sintomi di una malattia dal nome: “capitalismo”. Il suo dire possiede i toni profetici di una Cassandra ora più docile, ora rabbiosa, cagna ferita, che cerca di non fermarsi solamente alla questione della colpa liberale, ma che ne arriva fino in fondo all’analisi. Ci confessa i suoi pensieri più intimi, la pioggia di domande che la attanagliano, troppe, velenose, dettate da un’acida mancanza d’amore di chi non riesce a liberarsi della sua nausea esistenziale, nemmeno in ginocchio, davanti alla tazza di in water. E sfogliando le pagine de “Il capitale” di Marx, i legami tra i vantaggi del Primo Mondo e le sofferenze del Terzo Mondo si scoprono, sferrati come pugni in faccia, con l’improvvisa forza di una rivelazione. Cerca di lavare via con l’acqua le sue colpe, di ritrovare il candore bianco della sua pelle, la protagonista che ora, nuda, scivola nella vasca in cerca di refrigerio, ma i brividi, i tormenti, non le danno tregua. E il suo lavarsi le mani, rimanda inevitabilmente alla figure di quei Pilato, i potenti del mondo che, ancora oggi, lasciano scorrere senza impedire gli stupri, le morti di bambini innocenti sotto le bombe, la violenza imperante. L’acqua si fa rossa, come sangue che ribolle e il dispiacere diventa urlo che sconquassa tutti: “La gente dovrebbe evitare il male. Io lo dico sempre ai miei amici: dovremmo essere contenti di essere vivi. Dovremmo celebrare la vita. Dovremmo capire che la vita è una cosa meravigliosa.”
Nel gioco di contrasti, si nota una seconda superficie, un ‘plafon’ in pendenza e di uguali misure al pavimento. È simile ad una vetrata e viene utilizzato come interessante pannello di proiezione (meritevole lavoro di Lorenzo Letizia), in cui la Fracassi ritrova se stessa, nei mille volti frantumati dalla sua febbre, e che si accostano per qualità di luci (Omar Scala, con collaborazione di Gianni Staropoli) e della drammaturgia sonora (John Cascone) alle fisionomie oniriche e dolorosamente malinconiche del cinema di Lars Von Trier. Il risultato è quello di un’opera complessa, la cui trasposizione teatrale non sempre ne consente una lettura agevole. Resta però notevole la proposta di un tema così delicato, un testo arduo, proiettato oltre le barriere dell’ipocrisia giornaliera che ci trasciniamo dietro insieme al nostro io. Gli ottanti minuti di questa “Febbre” non possono essere semplice ricordo dell’esperienza di una sera a teatro, ma devono diventare monito costante nelle nostre vite. Come scriveva Tucidide: “Il male non è soltanto di chi lo fa: è anche di chi, potendo impedire che lo si faccia, non fa nulla”. Una considerazione questa, così vicina alle battute finali dell’opera, vere e proprie lame che affilano la coscienza: “Provare compassione per i poveri, non cambierà la vita dei poveri. Insegnare bei valori ai vostri figli, non cambierà la vita dei poveri. Le opere d’arte create degli artisti, non cambieranno la vita dei poveri”. Perché alle parole, devono seguire i fatti, se si vuole davvero cambiare qualcosa.
Diana Morea