La fabbrica dell’Assoluto: l’incontro tragicomico del genere umano con Dio
Karel Capek, autore ceco vissuto tra il 1890 e il 1938, con “La fabbrica dell’Assoluto” (Voland, pp. 243, euro 16), ci regala una favola molto reale.
L’ingegner Marek e il mago della finanza G.H Bondy hanno studiato insieme da giovani, ma non si vedono da vent’anni finché non spunta fuori la possibilità di un buon affare per entrambi. Marek negli anni ha sviluppato un potente Carburatore capace di frantumare la materia. L’unico inconveniente è un residuo immateriale e non decomponibile: l’Assoluto, ovvero Dio allo stato gassoso, quello stesso Dio presente in tutto e che, se tutto distruggiamo, allora si libera nell’aria insinuandosi ovunque, ma soprattutto nella mente delle persone. Effetti collaterali: delirio religioso, illuminazioni, capacità di leggere nel pensiero, incontenibile generosità.
“Il mio Carburatore è qualcosa di eccezionale. Rivoluzionerà il mondo dal punto di vista tecnico e sociale; ridurrà sensibilmente i costi di produzione; eliminerà la miseria e la fame; salverà un giorno il pianeta dal raffreddamento totale. Dall’altro lato, però, scaraventa sulla terra Dio come sottoprodotto. Ti scongiuro, Bondy, non prendere la cosa sottogamba; noi non siamo abituati ad avere a che fare con un Dio reale; non sappiamo minimamente cosa possa combinare la sua presenza… diciamo dal punto di vista culturale, morale e così via. Amico, qui è in gioco la civiltà umana!”.
Nonostante gli avvertimenti di Marek e il parere contrario della Chiesa che definisce l’Assoluto come illegale, la produzione e distribuzione a livello mondiale dei Carburatori prende il via, con tutte le conseguenze del caso: atti di bontà, ricchi che abbracciano i poveri, sette religiose, miracoli con la sola imposizione delle mani, guerre. Soprattutto, l’Assoluto, avendo già creato il mondo, si butta ormai nella produzione, mandando avanti da solo intere fabbriche di ogni tipo con conseguente sovrapproduzione, crollo dei mercati, operai che perdono il lavoro. È il caos.
“Era inesauribile. Sprizzava rendimento. Aveva trovato un’espressione numerica per rendere la propria mancanza di limiti: abbondanza. La miracolosa moltiplicazione dei pani e dei pesci nel deserto conobbe quindi una replica monumentale: la miracolosa moltiplicazione di bullette, assi, di fertilizzanti azotati, di pneumatici, di carta per le rotative e di ogni quant’altra merce industriale. Si assistette nel mondo ad un’illimitata abbondanza di tutto ciò di cui la gente ha bisogno. La gente ha però bisogno di tutto tranne che di un’abbondanza illimitata”.
E dunque, quella di Capek è una favola con tanto di illustrazioni fatte dal fratello Josef, che aiutano a far scorrere la lettura in modo ancora più piacevole. Come in ogni favola che si rispetti, non manca la morale. E Capek ci regala in realtà importanti spunti di riflessione che non poteva certo immaginare essere così attuali ancora oggi. L’Assoluto è flessibile: qui è cattolico, lì è un capo di Stato, di là ancora si comporta come se fosse alcool. Si trasforma in ciò di cui abbiamo bisogno. In fondo, Dio è questo: ciò che abbiamo bisogno che sia. Per questo non serve poterlo toccare o vedere. Basta sentirlo per tenerlo vivo perché “un po’ di inganno è l’unico vincolo che non fallisce mai tra le persone.” Ma l’inganno di cui ci dice Capek ha più a che fare con la libertà e il rispetto che con la bugia. C’è questa tendenza tutta umana a voler detenere la verità assoluta, ma non si può. Bisognerebbe imparare ad avere le migliori intenzioni non verso l’umanità intera, bensì verso il singolo individuo, accettare che un altro crede in qualcosa di diverso da noi, ma possa comunque essere un qualcosa di buono. Se non impariamo questo, saremo sempre al punto di partenza. Ce la faremo?
Laura Franchi