“La città” – Il viaggio onirico di Mario Levrero
Cosa fareste se vi trovaste improvvisamente in un posto che non conoscete, ma pensate di conoscere, o in una dimensione reale che è tutt’altro che reale, ma che disegna un quadro onirico inquietante e senza senso? Cosa fareste se all’improvviso foste – sì sempre voi, ma senza le vostre cose – all’interno di un posto sconosciuto, dalle strade infinite e senza confini? E se alla fine di questa lunga strada arrivaste in una città, che non è una città, dove tutti sanno tutto ma nessuno dice niente?
Questo è proprio ciò che accade al protagonista senza nome del libro “La città” (La Nuova Frontiera, Collana Il basilisco, pp. 152, euro 15) dello scrittore uruguaiano Mario Levrero, che si apre con le parole di Kafka, autore con una chiara influenza sull’opera levreriana. L’uomo arriva in una casa disabitata da tempo, appartenente ad altri, dove tutto sembra fermo e anche i mobili sono come fossilizzati dal tempo, non c’è luce elettrica e nessun altra comodità. L’uomo, che dovrà trascorrerci la notte, sconcertato, decide di uscire per comprare qualcosa da mangiare ma, colto da un improvviso acquazzone e disorientato, accetta un passaggio da un camionista e da una donna. A un certo punto e improvvisamente si ritroverà solo con la donna, in un luogo – a quanto pare una città, ma non c’è un cartello a indicarne il nome – senza confini precisi, con una stazione di servizio e qualche vecchio edificio; dove non passano automobili, dove vige un rigido regolamento e dove incontrerà un uomo che gli farà un po’ da bussola, ma neanche troppo.
“Fu in quel momento che scoprii il timore che mi dominava. Da quanto tempo vivevo preoccupato per l’imprevisto? Forse da quando ero uscito di casa, in cerca del negozio; forse da molto prima, o da sempre”.
Un’atmosfera onirica, dove si vede solo ciò di cui si ha bisogno e si delineano solo i personaggi importanti, come Ana e l’impiegato Giménez, il resto è offuscato, quasi assente. Percorre, l’uomo, paesaggi ampi dove manca qualcosa da un punto di vista sia spaziale sia temporale, che riempiono l’animo di solitudine e spaesamento ma, sempre e comunque, lasciano la speranza esasperata di una destinazione, una città ipotetica inafferrabile, una geografia spoglia fino alla rivelazione di un unico luogo, un punto di destinazione: Montevideo.
Il lettore lotta tra l’avidità di continuare la lettura e l’impulso di abbandonarla sorpreso da un senso di inquietante attesa: un uomo si è perso. Aspettiamo che trovi le sue cose, che ritrovi la sua casa, che si riesca a fumare una sigaretta, che arrivi a compiere le azioni che desidera compiere, affronti tutti i contrattempi con calma e indifferenza, sentimenti però impossibili per il lettore, che viene invece colto da uno stato di apprensione, irrequietezza e curiosità allo stesso tempo. Scale, porte chiuse e oscurità, come un quadro di Escher, un’immagine impossibile composta da tante scene possibili.
“Non potevo allontanarmi da lì perché non sapevo dove andare…”
Ma è proprio questo il gioco architettato da Levrero, che fa sì che il lettore sia una parte attiva e necessaria di questo racconto, dove anche ciò che non ha senso serve a incastrare importanti tasselli per individuare un punto di arrivo. Entrambe le due parti di cui è composta questa storia si chiudono con un sonno nero e profondo “senza immagini né parole, senza pensieri”. La scrittura di Levrero si scardina in modo trasparente e senza imperfezioni, rivelando una brillante capacità nel distacco con la realtà per lasciare il posto a una immaginazione innovativa e alienante che analizza l’onirico e la psiche umana all’interno della sua “trilogia involontaria”: La ciudad, Paris e El lugar; ma che persisterà in tutta la sua produzione e che raggiungerà il culmine di meta riflessione nel suo libro postumo, La novela luminosa (2005).
Marianna Zito