“La cena delle belve” al Teatro Carcano di Milano: entra in scena l’humour nero.
E noi cosa saremmo disposti a fare per salvare la pelle? È la domanda che pone agli spettatori “La cena delle belve” (Le repas des fauves) scritta da Vahè Katchà, un autore francese di origine armena, e andato in scena al Teatro Carcano di Milano dal 9 al 19 gennaio. L’edizione italiana è diretta a quattro mani da Julien Sibre e Virginia Acqua, la traduzione e l’adattamento è invece opera di Vincenzo Cerami, scrittore, sceneggiatore e drammaturgo di fama internazionale, candidato all’Oscar nel 1999 per La vita è bella di Roberto Benigni.
Nel 1943 una comitiva di amici è riunita a casa di un libraio e di sua moglie per festeggiare il compleanno di lei, sono presenti un medico simpatizzante per i nazisti, un reduce diventato cieco per una ferita di guerra, una vedova che vorrebbe unirsi alla Resistenza, un omosessuale cinico, un affarista collaborazionista. Chiacchierano pacificamente, senza dare troppa importanza alla politica. Improvvisamente fuori dal palazzo vengono uccisi due tedeschi, così le SS decidono di effettuare un rastrellamento: i due caduti saranno compensati con la morte di venti innocenti, prelevati negli appartamenti del palazzo. L’ufficiale nazista con il compito di prelevare due uomini tra i festeggiati, decide di concedere loro una “cortesia”, in quanto è un affezionato cliente del libraio: sarà la comitiva a scegliere chi dovrà sacrificarsi. L’amicizia viene meno quando è in gioco la vita e tutti danno prova di vigliaccheria, meschinità, cinismo e crudeltà. L’humour nero è sempre pronto a strappare un sorriso, non senza un velo di amarezza.
Nel 1964 è uscito il film Il pasto delle belve di Christian-Jaque, ma sono molte le differenze tra il lungometraggio e l’opera teatrale: lo spettacolo del Carcano non prevede che il libraio nasconda in casa un ebreo e anche il finale è differente. I personaggi sono tuttavia gli stessi, sebbene Julien Sibre e Virginia Acqua abbiano indagato a fondo la psicologia di ciascun individuo.
La scena di Carlo De Marino è un realistico salotto degli anni Quaranta di una famiglia borghese, le quinte conducono ad altre stanze della casa che il pubblico può solo immaginare: la cucina, il bagno e lo studio del libraio. Sul fondo del palcoscenico uno schermo riproduce vari video: montaggi di scene sul nazismo per introdurre lo spettacolo, ciò che i personaggi vedono dalla finestra del salotto oppure le scene che accadono in ambienti che non possono essere rappresentati sul palcoscenico, come la fuga del dottore dalla grondaia, i rastrellamenti negli altri appartamenti, l’ufficiale nazista che legge i libri rari nello studio del libraio, la morte degli ufficiali tedeschi e i bombardamenti. La maggior parte di tali video sono realizzati con la tecnica del cartone animato in bianco e nero, creando un singolare connubio tra il teatro e il cinema d’animazione. Un altro effetto speciale è il fumo che si diffonde dalla cucina quando, per salvarsi, i personaggi tentano di dare fuoco alla casa: non si tratta delle candide nubi della macchina del fumo, ma del realistico fumo nero che si crea quando qualcosa prende fuoco. I costumi di Francesca Brunori sono molto realistici ed evocano perfettamente ciò che si sarebbe potuto indossare negli anni Quaranta durante una festa.
Gestire la recitazione di così tanti attori sul palcoscenico ha richiesto una notevole cura della prossemica e si è dovuta portare particolare attenzione ai tempi della recitazione, ma Marianella Bargilli (Sofia), Emanuele Cerman (Vincenzo), Alessandro D’Ambrosi (Pietro), Ralph Palka (Herr Komandant Kaubach), Maurizio Donadoni (Andrea), Gianluca Ramazzotti (il Dottore), Ruben Rigillo (Vittorio) e Silvia Siravo (Francesca) hanno dato prova di eccezionale bravura e straordinaria professionalità. Per interpretare l’ufficiale nazista, è stato scelto un attore tedesco, il cui spiccato accento ha reso molto singolare lo spettacolo.
Nonostante i tentativi di strappare una risata, lo spettacolo provoca una profonda amarezza per la gravità dei temi trattati e induce lo spettatore a domandarsi cosa avrebbe fatto al posto dei malcapitati protagonisti, che offrono una visione pessimista della razza umana. Tuttavia il finale lascia un filo di speranza.
Valeria Vite
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