La Cassandra di Jan Fabre predice altre tragedie. Riusciremo a prevenirle?
La scorsa settimana Torino e Venaria sono stati i pregevoli palcoscenici di Sonia Bergamasco, attrice capace ed emozionante. Nota al grande pubblico per la sua Livia di Boccadasse nella serie RAI sul commissario Montalbano, è stimata anche dagli addetti ai lavori per aver collaborato con Bertolucci, Giordana, Mariangela Melato, Battiato. Noi l’abbiamo vista lunedì scorso, il 28 giugno, al Teatro Astra, in Campidoglio, ma venerdì e sabato è stata anche alla Reggia, dove ha portato un suo testo basato sulle Metamorfosi di Ovidio. All’Astra, comunque, era di scena Resurrexit Cassandra, col quale innanzitutto Bergamasco ha confermato la sua suadente abilità attorale, tanto che quasi risulta la regista di sé stessa; al netto poi di Jan Fabre, che qui è l’effettivo ideatore, nonché scenografo. Resurrexit Cassandra è un monologo grave e greve su testo di Ruggero Cappuccio (direttore del festival teatrale di Napoli, dove Fabre aveva già portato uno spettacolo simile), e si basa sul ritorno della Cassandra omerica, la celebre figlia di Priamo ed Ecuba maledetta da Apollo. Ancora oggi, quel personaggio è l’antonomasia della profetessa inascoltata, della divinatrice irrisa e successivamente colpevole di aver portato sfortuna (ma forse questa è una conseguenza contemporanea, perché per i greci esisteva solo il Fato, o l’Ananke…). Dunque Fabre l’ha opportunamente scelta per raccontare tutte quelle inevitabili tragedie preannunciate e relativamente imminenti delle quali però l’umanità sceglie tuttavia di non curarsi: lo spettacolo indaga e denunzia quell’inspiegabile ignavia con la quale la specie umana reagisce ai propri errori; sappiamo perfettamente, cioè, cosa potrebbe accadere al nostro pianeta se a breve non cambieremo il nostro modello di sviluppo, eppure il meccanismo di autoinganno è più forte, per quanto assurdo possa sembrare. In breve, è la vittoria del cupio dissolvi. Cassandra resuscita come la versione 2.0 di sé stessa: ciclica come la storia, riemerge dalla natura e avvolta nella stessa sussurra, urla, piange; consapevole che ancora una volta non la ascolteremo. Questa donna, col suo sermone estatico, esagitato, ma poi comprensibilmente impaziente, narra i disastri sociali ed ecologici dell’agghiacciante ed eterno presente di quest’epoca post-contemporanea. I controsensi dell’antropocene sono evidenti: città sommerse, continenti galleggianti di plastica, estinzioni di massa, sconvolgimento degli ecosistemi, crisi idriche… La stessa Bergamasco, d’altronde, in un’intervista per La Stampa ha paragonato il suo personaggio a Greta Thunberg.
La scenografia è in parte stabile – tanti serpenti lignei, equidistanti, sovradimensionati, immobili – e in parte mutevole – sullo sfondo, brani di quella che a livello teorico sarebbe videoart: l’attrice stessa, immersa nella nebbia e nei vapori, che taglia le volute di fumo con un’accetta da carpentiere (una metafora azzeccata, che non necessita di essere spiegata). Il tutto si articola su cinque quadri, e sono cinque i cambi d’abito e di argomento. Prima una veste da monarca a lutto, come Vittoria quando morì Albert; poi un lungo di lustrini rossi, tipo Milly Carlucci che conduce in prima serata; poi del raso blu, stile presentatrice sanremese; poi uno stupendo verde bandiera e per concludere un abitino bianco, fatato, con la gonna plissettata che lascia intravedere i tacchi a spillo e il bustino aderente ad esaltare la figura già longilinea dell’interprete. Il discorso cromatico dei costumi di Nika Campisi è piuttosto chiaro: terra (macerie), fuoco (scintille), acqua (vita), natura (flora, fauna), e infine speranza per l’avvenire. A livello tematico, poi, i comparti stagni aiutano a seguire il filo del soliloquio. Primo quadro: Cassandra racconta la sua morte espansa, l’orgia ordinata di molecole che ha portato i suoi organi nelle città di tutto il globo. Secondo quadro: la vita da cortigiana del male… lei aveva previsto tutto, Paride ed Elena, il cavallo di Odisseo, la cospirazione di Egisto e Clitemnestra… Terzo quadro: diventa una figura atemporale; spiega che erano prevedibili (e quindi evitabili) il nazismo, le bombe atomiche, le carestie, le miserie… Quarto quadro: geniale più che altro dal punto di vista degli effetti sonori (curati da Christian Monheim), con tutte quelle seghe elettriche che lacerano i timpani e gli scacchi rovesciati, così simili alle ossa che si rompono. Quinto quadro: Cassandra ammette di essere stanca; rinascere per lei significa altre sventure da prevedere ma mai da prevenire. Così implora il nulla per darci tutto, chiama in causa la matematica del bene e l’astronomia della gentilezza; spiega che la sua scomparsa segnerebbe l’inizio effettivo del futuro, da intendersi come un’epoca migliore. La sua morte sancirebbe la fine del nostro perpetuo e per certi versi inconcepibile desiderio di devastazione. Qui e là tra un quadro e l’altro, qualche canzone dei Beatles parlata: Lucy in the sky with dimanods, Here comes the sun, Revolution.
L’opinione di molti autorevoli esperti (tra cui si annoverano ovviamente anche molti spettatori paganti) è che questa pièce sia impostata su solide basi: nobili intenti, un testo lessicalmente accattivante, doti interpretative di prim’ordine, un impianto scenografico alquanto riuscito. Questi aspetti, tuttavia, obnubilano in qualche modo le operazioni di regia, che risultano distanti, sfocate, indistinte. Ma magari Fabre voleva così, e alla fin fine non c’è niente di male in questo.
Davide Maria Azzarello