Kublai e il primo disco in efficace connubio tra elettronica ed emozione – La recensione
È uscito oggi 4 dicembre “Kublai” il primo disco del progetto solista di Teo Manzo che porta lo stesso nome, Kublai. Manzo ha composto tutti i brani mentre Filippo Staviero li ha registrati, prodotti e mixati, oltre a essere coautore delle musiche.
Questa opera prima, a detta dell’artista, nasce come album dialogico, che vede come protagonisti due amici che conversano in una sera come tante. Non importa chi sono questi amici, ognuno può associarli a chi preferisce, Kublai dice solo che al termine della conversazione uno dei due decide di uccidersi, il che riassume quanto segue: “la piena realizzazione di un intento comporta, al fondo, la su perdita.”.
I brani di questo disco sono collegati tra di loro, alcuni in modo continuo, altri prendendo un respiro, ma tutti creano un unico mondo in cui immergersi. Le nove tracce vedono protagonista l’elettronica, che si plasma di volta in volta e risulta capace di amalgamarsi in modo molto efficace con gli strumenti acustici e di abbracciare pienamente la voce e le splendide melodie, nonché i lodevoli testi. Andiamo nel dettaglio.
“Pellicano” è un brano evocativo, elettronica e voce, con un pizzico di ritmo, melodico e struggente “ho un bicchiere di luce al tramonto, solo un sorso e poi giù alla gola del buio”.
“Orfano e creatore” brano di tutt’altra atmosfera, la chitarra si sovrappone all’elettronica e si fonde con essa, la voce è doppiata in ottava, in completa fusione con l’ambiente sonoro che passa dal buio alla luce. Il testo racconta una storia d’amore contrastata: “era una notte scura, senza luna, quella nera in cui lo baciò, era l’ultima volta e forse lei sapeva, mentre lui invece no”.
“Nevai” è una ballata soave ed emozionante “beati i discreti che appresero la verità e i sonni completi se l’incubo li spezzerà”; il brano mischia in modo efficace la chitarra acustica agli effetti dell’elettronica; nella seconda parte il brano si asciuga e lascia la voce libera dagli effetti lasciandola arrivare nella sua bellezza e melodiosità.
I brani sopra commentati sono collegati l’uno all’altro, come un unica strada, le parti musicali in ogni brano sono davvero “saporite” tanto quanto quelle cantate.
“Cipango” ha venature rock che si uniscono all’elettronica e a un’impronta cantautorale, il testo dice: “però io sarò un uomo, un uomo per davvero, ed avrò in faccia i segni, segni del pensiero”. Il titolo “Cipango” indica il Giappone con un termine usato per la prima volta ne “Il Milione” di Marco Polo. Anche questo brano si presenta diviso in due parti, con il divisorio dato da uno strumento a corda dal timbro stridulo, a rievocare i suoni della terra del Sol Levante.
“Lullaby (ora dormi degli oceani)” porta in un ambiente dissonante e cupo, con un ritmo lento e ben presente, con vocalizzi distorti a farsi strada tra i suoni. La voce entra a metà inoltrata del brano, la musica la accoglie lasciando l’elettronica in secondo piano ed evolvendo con una melodia bellissima e dei versi poetici: “sonno non ne ho, stiamo ancora un po’, se guidare scegli tu, non sogno più”.
“Alla luce” è un brano struggente, che lascia spazio, come già in altri brani, a parti strumentali ricche di suggestioni, in linea con il testo: “inutile volersi spettinare al cielo lugubre, stremarsi ad inalare il vento, è sempre stato il mio scontento”.
“Le soglie del dolore” parte con la chitarra acustica, ma all’entrata della voce l’atmosfera cambia. Il testo descrive immagini collegate a quella del titolo, sembra un brano cantautorale contemporaneo. Un momento molto emozionante arriva quando entra il coro: “ti insulterò le mani se non mi chiami in tre giorni di sole, quale migliore occasione per dirtelo quando le nostre mani avranno rami di fogli stesi al sole, e le soglie del dolore chiavi”.
“Musa” è un brano fluido e ammaliante, formato, come spesso accade, da più parti in cui cambia ritmo e atmosfera. Il testo è arguto e ironico: “scusa, il contrario del tuo nome fa paura, non lo posso pronunciare per vergogna, lo potró sempre cantare quando ho voglia”.
“È l’ora delle visite, Vincenzo” si collega la brano precedente e unisce un po’ di rock all’elettronica, così come coinvolge il bel tiro, soprattutto nelle strofe: “quante volte al sole avresti detto addio, la mente è un asteroide e il resto sono io”. Un brano con splendide parti di sola musica non meno potenti delle parti con la voce.
Un disco bellissimo, finemente collegato, che appassiona e avvolge, senza che nulla sia scontato.
Roberta Usardi
Fotografia di Simone Pezzolati
https://www.instagram.com/kublaismusic/
https://www.facebook.com/kublaismusic/