José Ovejero e il suo amore inventato
“Non uso mai la parola amore. Non leggo mai romanzi d’amore”
José Ovejero ha il dono della descrizione, la descrizione delle sensazioni – sensazioni ora vuote ora colme fino all’orlo – dei sentimenti e dei pensieri, quelli nascosti, profondi. Sarebbe forse più esatto dire che Ovejero sa descrivere quei pensieri che nella nostra testa sono ancora idee, ancora nuvole. E in questo romanzo L’INVENZIONE DELL’AMORE (Voland, pag. 253, euro 18) – che leggiamo grazie alla precisa e armoniosa traduzione di Bruno Arpaia – lo fa in un modo così sorprendente che quasi ci sentiamo spiati, infranti, scoperti. E dopo le idee subentrano i gesti e le parole che disegnano nella nostra mente le scene di un film, che vorremmo vedere o esserne addirittura i protagonisti. Sentiamo così l’ebbrezza al mattino sulla terrazza e, per un momento, siamo proprio lì accanto a Samuel e alla sua solitudine, mentre contempla i tetti di una Madrid che si sta risvegliando, ignorando che quel telefono che squilla sta per cambiare del tutto la sua vita.
E poi arriva improvvisamente Clara che, con la sua assenza, continua involontariamente a dirigere un teatrino che Samuel rende sempre più complesso. Si addentra nella vita di questa sconosciuta, ne spia le espressioni, i lineamenti, i colori. Si innamora dell’energia vitale e delle debolezze di questa donna che ormai è morta e che lui sente sempre più vicina, quasi palpabile accanto a sé: una donna che ha amato ma che sa di aver amato solo adesso che non c’è e senza averla mai conosciuta. “Voglio sapere chi è Clara, e cosa ha fatto, quale relazione avevo con lei e perché mi dispiacerà”. Una nuova vita per sfuggire alla noiosa routine e al lavoro? Cosa cerca Samuel? Cosa ha in mente? O è semplicemente quel grande desiderio di uscire dagli schemi, dalle righe oltrepassando quel confine dove non sempre abbiamo accesso, che è la vita degli altri? José Ovejero analizza i pensieri più intimi dell’uomo, i rapporti con i genitori e le ripercussioni che hanno sulla vita dei figli, la fragilità delle relazioni, il rapporto con la morte o con l’idea della morte, “un lutto a cui non mi vincola nient’altro se non il desiderio di provare anch’io quell’emozione intensa che indubbiamente provoca una perdita”. Ci apre la prospettiva verso quelle figure che ci sono ignote, un nuovo mondo vivibile solo attraverso gli altri, gli sconosciuti. Invenzione e realtà si intersecano a tal punto che il lettore si confonde, si convince e si riconfonde, perdendo quasi il senso della verità. Ignoriamo la vita di chi ci sta vicino, abbiamo nostalgia di ciò che non è stato, ci imbattiamo in tanti e diversi punti di vista. Le emozioni di Samuel non gli appartengono ma lo coinvolgono come se fossero sue, si insinuano in ogni spazio vuoto del suo corpo e del nostro.
E allora, a un certo punto, capiamo che – così come i rondoni che non riescono a prendere quota da terra – a volte, per tornare a vivere, abbiamo bisogno – come Samuel – di dimenticare il passato e di concedercelo anche noi quel meraviglioso salto nel vuoto.
Marianna Zito