“J e Acca, lo strano caso”: Due vite, e le atmosfere del capolavoro di Stevenson, al Teatro della Contraddizione di Milano
“Siamo i soli svegli in tutto l’universo
A gridare un po’ di rabbia sopra un tetto”
Due vite – Marco Mengoni
È una questione “senza tempo”, quella che R.L. Stevenson pone a tutti noi, attraverso il suo capolavoro “Lo strano caso dell Dottor Jeckill e del Signor Hyde”:“Non è forse questa la maledizione del genere umano: che, aggrovigliati in un incongruo legame, due esseri agli antipodi siano costretti a combattersi in eterno nel grembo straziato di una medesima coscienza?” Una domanda alla quale lo spettacolo risponde con evidente libertà di scrittura scenica (che contempla come autori, oltre a R.L. Stevenson, anche Guy de Maupassant, Fëdor Dostoevskij e Thomas Bernhard) e di sua rappresentazione, catapultandoci nell’incubo del suo, o meglio dei suoi protagonisti, J e Acca appunto, esseri uniti e contrapposti all’interno di una stessa coscienza umana.
Ciò che ci colpisce è la consapevolezza che certe questioni universali e perciò “senza tempo” attraversano, che ne siamo o meno consapevoli, la nostra epoca e il nostro vissuto quotidiano (anche quello in apparenza più lontano). Non c’è l’atmosfera luccicante di Sanremo, ma quella inquietante, torbida, straniante del capolavoro di R.L. Stevenson, nello spettacolo che vede protagoniste le magistrali prove di Rossana Gay e Paola Tintinelli al Teatro della Contraddizione di Milano dal 23 al 26 febbraio. A regnare, nella città semideserta, è l’oscurità della coscienza umana, sono i suoni e le parole distorte, trascinate fino a spezzarsi, che avvolgono come una nebbia i sensi degli spettatori e li trasportano nel baratro della tempesta interiore di J e Acca e nel loro vano tentativo di conciliare l’inconciliabile e allo stesso tempo di separare ciò che è indissolubile nell’animo umano. Beviamo, con loro, la pozione “magica” (in realtà, Digerselz) che ci consente di esplorare le profondità dell’animo umano e di farlo, come le due protagoniste in scena, lasciandoci trasportare dai nostri pensieri, anche quelli apparentemente più lontani. Liberi di poterlo fare. Nell’impossibilità di dormire, che è allo stesso tempo incubo (mio o tuo?) di J e Acca a me per esempio risuonano parole di oggi:
“Tanto lo so che tu non dormi, dormi, dormi, dormi, dormi mai
Che giri fanno due vite”
Nella loro smania di trovare un accordo impossibile, o una separazione altrettanto impossibile, nella loro consapevole diversità che li fa mostri e fate scambiandosi a volte i ruoli, mi appare chiaro finalmente che:
“Siamo i soli svegli in tutto l’universo
E non conosco ancora bene il tuo deserto
Forse è in un posto del mio cuore dove il sole è sempre spento
Dove a volte ti perdo, ma se voglio ti prendo
Siamo fermi in un tempo così, che solleva le strade
Con il cielo ad un passo da qui, siamo i mostri e le fate”
Mi ritrovo in un tormento personale e allo stesso tempo contemporaneo, così come J e Acca sembrano in un altrove comune e io penso:
“Qui non arriva la musica
E tu non dormi e dove sarai? Dove vai?”
O quando il buio si fa, in tutti i sensi, più “totale”:
“Spegni la luce anche se non ti va
Restiamo al buio avvolti solo dal suono della voce
Al di là della follia che balla in tutte le cose
Due vite guarda che disordine”
Due vite, dunque, che sono una sola:
“Nel bene e nel male
Sei bene e sei male”
(Madame)
Indissolubilmente.
A. B.