Ionesco a Moncalieri: Binasco dirige Fracassi e Di Mauro.
In questi giorni, oltre a Il piacere dell’onestà, il Teatro Stabile di Torino propone anche un altro spettacolo, forse più audace. Trattasi di una tra le più detonanti farse tragiche di quel filone novecentesco dell’assurdo: Le sedie, del geniale drammaturgo rumeno Eugène Ionesco, a tratti negletto ma poi profondamente attuale. Un atto unico, un dialogo, composto nel ‘51, presentato a Parigi nel ‘52, e tradotto per noi da Gian Renzo Morteo; che indaga in maniera acuta l’impalpabilità di cui è chimicamente composto il senso della vita. Nulla di nuovo, né di speciale, se lo si presenta in questo modo, ma come molti sapranno Ionesco è in grado di elevare all’ennesima potenza l’esistenzialismo drammaturgico, lo rende spietato, quasi nequitoso, opprimente; e dunque val bene il prezzo assai modico del biglietto. Poi è chiaro, non a tutti piace sentirsi ripetere continuamente quanto siamo effimeri, né che presto saremo di nuovo polvere o cenere – mi spiega un affascinante spettatore con cui ho potuto scambiare due parole – ma in risposta a questa legittima polemica noi ci sentiamo solo di ricordare a costui che Ionesco ha ragione, lui ha compreso qualcosa e ci sta offrendo delle conclusioni non solo empiriche, ma anche sistematiche: se vogliamo ignorare un dono, siamo titolati a farlo.
Il Vecchio e la Vecchia (che si chiama Semiramide, come la leggendaria regina) prima discutono dei loro ricordi – Sì che è esistita (Parigi), dal momento che è sprofondata… Era la città della luce visto che si è spenta, spenta da quattrocentomila anni… – e poi lui, incoraggiato da lei, organizza un convegno invitando tutti gli esseri umani per rivelare finalmente la sua scoperta tramite un oratore che sopperirà alla sua incapacità di sapersi esprimere chiaramente dinnanzi ad una platea. È l’ultima giornata della vita di una coppia di coniugi innamorati, o meglio, consunti nel loro amore routinario talmente onesto da risultare bislacco, dunque inimitabile.
Siamo alle Fonderie Limone di Moncalieri, e aprile sta lentamente evolvendo verso maggio: gli ultimi sbuffi di vento freddo sollevano le code di certe redingote eleganti, l’aria è umida, il cielo nuvoloso. Nel foyer, la gente chiacchiera sorridendo sotto le mascherine chirurgiche. Finalmente ci siamo, si torna a teatro. Sì, ma solo fino a domenica, poi chi lo sa come cambierà la situazione… e difatti l’atmosfera è pur sempre lugubre: niente bar, niente guardaroba, decine e decine di posti vuoti (anche tra congiunti che la sera dormiranno nello stesso letto). Ma comunque, per quanto spettrale, il contesto brilla anche di un vago senso di cauta speranza. 19.30, s’inizia. Ma, prima degli attori, il pubblico è invitato a osservare la scenografia, che già da sola rivela buona parte di quel che si vedrà: uno stanzone macabro, post apocalittico, senza nessun arredo che non sia la catasta di sedie che dall’angolo a destra si erge fino al soffitto sfondato, dove quattro oblunghi neon da ufficio talvolta proiettano certi tetri nitori arancioni. Sul pavimento, ghiaia, pietrisco, macerie, polvere. Le pareti sono incrostate di un sudiciume millenario, antico ma anche profondamente contemporaneo. L’unica finestra, in fondo, si affaccia su un oceano cangiante che sfocia in un nebuloso cielo verdegrigio. Un’altra finestra, o un balcone, va immaginata fra il palco e la platea. Questa riuscitissima scena, che già da sola comunica molto di quel che vuole intendere Ionesco, è opera di Nicolas Bovey, che ha curato anche le luci. Pian piano, claudicando, da dietro la catasta di sedie emergono due figure vacillanti, malferme, anziane (o antiche? Ancestrali?), deboli ma non ancora annientate dalla stanchezza. Sono Michele Di Mauro e Federica Fracassi, due artisti che non necessitano d’essere introdotti, due nomi due garanzie, qui peraltro abbigliati stupendamente da Alessio Rosati. Lui biascica, incespica come quegli anziani che sembrano masticare sempre il tabacco; lei gracida, gracchia, tremando come quelle madri che oscillano eternamente fra l’autoconvincimento e il dubbio. Insieme, creano un duo intenso, che deflagra in un impeto laconico, ovattato, ma comunque loquace, denso, penetrante. Il loro è un colloquio impossibile, mordace nei contenuti ma splendidamente prolisso nei toni.
La regia, prevedibilmente, porta la firma di Valerio Binasco, ormai condottiero incontrastato dello Stabile. Il suo intento era fare di questo testo una storia di tenerezza umana, ed effettivamente questi due decani, questi veterani della vita, non solo atterriscono, ma commuovono, galleggiando nell’ironia genuina e innamorata. Tanto che, addirittura, in questa versione il fantomatico oratore non arriva, perché qui viene ridotto ad una semplice luce gialla proiettata dall’alto verso il basso: bastano loro, per spiegare ciò che non può essere davvero capito. Binasco ha orchestrato una messinscena difficile da definire (e questo è positivo), sicuramente intrigante, maliarda, palpitante di un incanto che raramente si riesce ad ottenere. Infine, tra le altre cose, questo testo strizza l’occhio (anche se Binasco asserisce di non aver agito con malizia, e gli crediamo) alla situazione che stiamo vivendo: i protagonisti, d’altronde, aspettano gli ospiti, disponendo le sedie per loro, proprio come gli attori accolgono gli spettatori tanto anelati in tutti questi mesi d’inattività dovuta alla pandemia e ai suoi risvolti sociali e politici.
La prima è stata martedì 27 aprile, e le repliche sono assicurate fino a questa domenica, quando il nuovo decreto del ministero della salute ci istruirà sul da farsi. Se saremo fortunati, comunque, potremmo godere di questa pièce fino a domenica 16 maggio.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Luigi Di Palma