Intervista “impossibile” al Capitano Mario Zipoli
Gefangenennummer 40148
Mario Zipoli nasce a Prato nel 1911. Dottore in Giurisprudenza, non potrà mai abilitarsi alle funzioni di notaio perché viene chiamato alle armi e promosso al grado di capitano di artiglieria nel gennaio del 1943. Entra a far parte del 41° reggimento di artiglieria D.F. Firenze. Inviato nella Costa Azzurra per far fronte allo sbarco degli alleati, giunge ad Antibes il 2 aprile del 1943 e, successivamente, viene assegnato al 65° raggruppamento dell’artiglieria costiera. Fu dunque uno degli internati militari italiani (IMI) rimasti sotto il dominio e gli abusi dell’esercito nazista fino alla sua conseguente liberazione avvenuta il 16 aprile 1945.
Buongiorno Capitano, La ringrazio per aver accettato la mia intervista e per non essersi in qualche modo “sottratto”. Sono venuta a conoscenza della sua storia nel settembre del 2020, a seguito della pubblicazione del libro Due Prigionieri, l’internato e il codirosso, edito da Postcart, opera letteraria corredata da immagini e resa nota da suo figlio, Prof. Riccardo Zipoli che ha divulgato le memorie contenute in un minilibro rilegato in pelle nera, un’agendina minuscola.
A tal proposito, sarei felice se lei mi parlasse di questo taccuino.
M.Z.: Queste brevi note sono state scritte originariamente sopra una piccola agenda che ero costretto a tenere celata nel doppio fondo di un thermos o sopra una trave del gabinetto per non incorrere nelle rappresaglie dei tedeschi: non era ammesso, infatti, scrivere diari od altri appunti, specialmente di sapore antitedesco. Quando le perquisizioni si fecero più frequenti e più accurate dovetti, a scanso di maggiori pericoli, rendere illeggibili ai tedeschi le frasi più scottanti. Incominciai queste note poco prima della nostra cattura a Cagnes-sur-Mer e le interruppi alla partenza dal campo di Deblin-Irena sia per mancanza di carta che per i troppi pericoli cui ci si esponeva in caso di sequestro da parte dei tedeschi. Esse descrivono in stile telegrafico, i fatti salienti della giornata ma non rappresentano neppure lontanamente le sofferenze fisiche e morali cui ci sottoponevano coloro che avevano la spudoratezza di voler dominare il mondo, ritenendosi il popolo più civile della terra.
Mi vuole raccontare ciò che accadde alla notizia della firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943 e nei giorni successivi?
M.Z.: L’8/09/1943, alle ore 20 ci viene comunicato dal comando di divisione che c’è stato l’armistizio. Nei giorni che seguono ci portano a La Colle. Verso sera ci riportano alle nostre ville di Cagnes-sur-Mer. Ci lasciano senza desinare. L’11/9/1943 partiamo in automobile per Villeneuve. Anche oggi senza desinare e cena. Nel primo pomeriggio si parte incolonnati per la stazione di Cagnes-sur-Mer, a piedi. Assistiamo a commosse manifestazioni della popolazione alla stazione e lungo la strada. Partiamo in treno alle ore 24 diretti verso l’ignoto. Il pomeriggio del 12/9/1943 giungiamo a Marsiglia. Fa caldo e incomincia a farsi sentire la sete.
La lingua e le labbra sono aride: la sete è veramente terribile!!
Il 15/9/1943 giungiamo a Münsingen a 60 chilometri da Stoccarda. Alle ore 8 entriamo nel campo di concentramento con i soldati. Dato che il campo dista qualche chilometro dalla stazione, avevo chiesto di essere trasportato in autocarro essendo impossibilitato a mettermi le scarpe perchè i piedi mi erano molto gonfiati per il troppo star fermi in treno: il rimedio è stato però peggiore del male perchè questi maledetti tedeschi mi hanno costretto, insieme ad altri malati, a scaricare tutti i bagagli pesanti degli altri ufficiali che, nel frattempo, si erano avviati a piedi verso il campo. Ci sistemano in stalle, frammischiati con i soldati. Questo trattamento iniziale ci fa già capire quale sarà la nostra sorte. Il 16/9/1943 ci separano dai soldati e ci mettono in un altro capannone. Ci visitano i bagagli e mi requisiscono la macchina fotografica. Ci fanno la fotografia col numero al collo, come ai galeotti: mi assegnano il numero 40148. La sera del 23/9/1943 ci hanno posto il dilemma: o combattere con loro o rimanere in Germania a loro disposizione. Non siamo più considerati prigionieri, ma internati. Il 6/10/1943 accade che un ufficiale tedesco ci raduna e chiede chi vuol combattere con i tedeschi per la difesa della civiltà europea inquadrati in grandi unità tedesche. La nostra prima domanda (di adesione forzata) sembra non sia più valida: meno male! come se mi avessero tolto un peso sopra lo stomaco! Il giorno dopo, un fascista di Cracovia durante un’altra adunata chiede chi vuol aderire al Partito Fascista Repubblicano e di conseguenza anche alle S.S. Nessuno aderisce.
Nella sua agenda c’è una parte intitolata Ore di attesa a Wietzendorf 4 aprile 1945 – 21 luglio 1945. Di cosa si tratta e di cosa parla nello specifico?
M.Z.: Rappresenta la seconda parte del diario scritto nel campo di concentramento di Wietzendorf, durante gli ultimi mesi di una prigionia durata quasi due anni, in diversi campi di internamento europei. Gli appunti riguardano i 13 giorni di prigionia prima della mia liberazione avvenuta il 16 aprile 1945 e 97 giorni trascorsi prima del ritorno in Italia.
Mi parli dei giorni della resa tedesca e della sua liberazione. Credo che lei non dimenticherà mai quel periodo, i sentimenti dello scorrere del tempo, la nuova stagione che si preparava, carica di speranze. Qual era lo stato d’animo che l’accompagnava, i pensieri suoi e in generale quelli dominanti?
M.Z.: Il mattino del 16 aprile 1945 da sud e da ovest le artiglierie sparano senza posa: i proiettili passano sopra il campo e scoppiano nelle immediate vicinanze. Verso le 14 cessa del tutto la battaglia: si attendono gli eventi serenamente. Il campo si riversa all’ingresso: corre voce che sono arrivati gli americani. Infatti, fra grandi acclamazioni giunge in automobile un maggiore canadese insieme a due soldati. I primi a riceverlo siamo noi italiani. Sostiene di aver avuto l’incarico di liberarci: ciò che fa disarmando immediatamente i 67 crucchi e i due ufficiali tedeschi e dandoli in consegna ai francesi che prendono le loro armi. Nel campo spira un’altra aria. Tutti cercano di uscire dagli accantonamenti ben vestiti e puliti. Si pubblica da parte del comando italiano l’ordine del giorno della liberazione. Intorno al campo grande calma. Sembra un’oasi di pace… La cosa importante è che si riprende a mangiare abbondantemente e le forze, poco per volta, stanno ritornando. Dopo qualche giorno mi viene restituita la macchina fotografica ed il treppiede, requisitimi 19 mesi fa. La fotografia della tessera invece non riesco ad averla: peccato, era un bel ricordo! E quale grande gioia sentire parlare di partenza, che finora era stata la nostra ossessione! Verso la metà di giugno ci viene comunicato che partiremo probabilmente in treno da Wietzendorf o da un altro centro vicino e, attraverso la Svizzera, andremo direttamente in Italia. Spesso ci sorprendiamo distratti, con gli occhi fissi lontano e la faccia sorridente: sogniamo ad occhi aperti e, quantunque si sia ancora qui a Wietzendorf, noi ci vediamo a casa in mezzo ai nostri cari. In qualche momento non ci sembra possibile che si debba ritornare: è troppo bello e noi, da troppo tempo, abbiamo dovuto dimenticare le cose belle. Nel frattempo, devo dire, seppure tra difficoltà e disagi dovuti soprattutto alla frammentarietà o, in alcuni casi, mancanza di notizie da parte dei familiari, ho continuato a scrivere e ricevere lettere, cito l’ultima inviatami da mio fratello Renzo che così recita “Carissimo Mario, abbiamo ricevute le diverse tue lettere di maggio, e ieri è arrivata la cartolina del 9 luglio che ci annuncia il tuo arrivo per i primi di agosto. Non ti dico la grande gioia che ci ha arrecato questa tanto attesa notizia. Nessuno di noi sta ora più nella pelle e si contano i giorni. Tutte le volte che qualcuno picchia alla porta ci fa rizzare gli orecchi….Oggi stesso mando a Viareggio la notizia del tuo prossimo arrivo e Leda, che già stava sulle spine… In attesa di rivederti finalmente, ti mando baci e gli abbracci di tutti noi”.
Caro Capitano Zipoli, prima di congedarla Le racconterò di come la sua storia contenuta in questa agendina presenti tutti gli aspetti di un piccolo libro sacro per i tratti e i valori universali in cui l’umano può riconoscersi. Il protagonista vive una tragedia, la racconta mantenendo intatta tutta la sua dignità, nonostante sia piegato nel corpo e nello spirito, nonostante quel corpo sia esposto al male, più vile, più basso, privato di una identità: il capitano Mario Zipoli è il numero 40148, uno dei tanti numeri di cui, ancora oggi, qualcuno tenta invano di mettere in dubbio l’esistenza. Un fatto che fa pensare inevitabilmente, all’episodio del Vangelo di Giovanni, l’episodio di San Tommaso – del quale il Caravaggio diede la massima espressione e potenza artistica – che viene invitato a infilare la mano nel costato per “credere”.
Beati quelli che pur non avendo visto crederanno.
Beati noi tutti che non abbiamo dovuto vedere questa parte buia del Novecento! È un orrore senza tempo, e questo è un libro sul tempo, su come due storie, pur germinando in epoche diverse, sembrano essere unite da un filo sottile. Tutto ciò avveniva il 6 aprile 2019, mentre suo figlio Riccardo Zipoli, nella biblioteca di Massa Marittima leggeva alcune pagine del suo diario. La storia del Capitano e la storia di un codirosso rimasto intrappolato all’interno di una vecchia finestrella, una piccola apertura che dava sul bosco.
In un caso, dall’ambiente aperto dei boschi alle tremende angustie di una gabbia, nell’altro, da una vita libera all’intollerabile reclusione in un vagone chiuso e stipato. L’episodio mi era parso non tanto una semplice coincidenza quanto uno di quei segnali che il destino alcune volte ci invia per renderci più consapevoli di alcune circostanze.
Giusi Bonomo