Intervista a Giorgio Barrera. “In the light of you”
Abbiamo avuto modo di conoscere e parlare con il fotografo e artista Giorgio Barrera, dopo aver letto il suo libro La Battaglia delle Immagini, Piccolo Manuale di Resistenza Fotografica, edito da Postcart. È iniziata una corrispondenza sui temi della fotografia e insieme abbiamo deciso di approfondire alcuni aspetti del suo progetto fotografico collettivo: In the light of you.
Ciao Giorgio, puoi dire ai nostri lettori chi sei, cosa fai?
Ciao Giusi, sono Giorgio, una persona che si interessa di tante cose, ama leggere, scrivere e lavorare con le immagini soprattutto quelle ottiche. Da circa due anni mi sono avvicinato al mondo dell’agricoltura, in particolare quella biodinamica.
Cosa ti ha spinto a dare inizio al progetto “In the light of you”, e il perché di questo titolo?
Ho iniziato il progetto subito dopo il confinamento a Firenze. Il lavoro prende spunto da questa strana situazione che stiamo vivendo, per poi progredire verso valori umanistici. Da un punto di vista emozionale, mi ha spinto il fatto che le fotografie giornalistiche molto simili fra di loro, accarezzavano stereotipi linguistici e secondo me facevano perno su una scontata moralità. Devo dire che mi è sembrato di assistere a una restaurazione del linguaggio. Pareva che, per essere pubblicate, le fotografie dovessero contenere le modalità espressive delle drammatiche foto che nel secolo scorso hanno rappresentato e narrato episodi di guerra. Una forma di diplopia come direbbe Clement Cheroux. Il lavoro non è nato a tavolino ma si è formato autonomamente grazie a una serie di scambi di opinione sulla fotografia e da una serie di riflessioni sul distanziamento. Il lavoro è quindi il risultato di uno studio visuale mosso da una necessità. Una delle cose che culturalmente, secondo me, va esaurendosi è l’interesse verso l’altro in quanto umano. Questo lavoro in un certo modo vuole resistere a questa maniera di relazionarsi freddamente. Il titolo discende da quest’ultime considerazioni perché tradotto significa in considerazione di te e devo dire a me piace molto perché è comprensibile anche a chi non conosce bene l’inglese, per la sonorità dell’insieme e perché nella traduzione letterale in italiano nella la luce di te ti pone di fronte alla luminosità dell’altro, io umano, ma anche io fotografo ti metto in luce e così mi è più facile vederti.
Queste immagini sono interessate a essere fedeli al reale o a riprodurre una realtà, un presente all’interno di una rappresentazione o, meglio, la trasmissione di una forma di verità?
Una caratteristica della fotografia è il suo legame con il reale. Proprio questo legame dichiarato la rende tremendamente ambigua. L’apice di questa enigmaticità viene raggiunta proprio nelle fotografie del dolore e del dramma. Le mie immagini trasmettono, ne sono certo, una forma di verità che non è la verità di un momento specifico catturato nell’istante o sul luogo di un accadimento. Questa mia verità risiede e va a cercare cosa quell’accadimento, che è parte di un conflitto più grande, causa o può causare nella società. L’ho fatto specie nei miei primi lavori di ricerca che guardano al mondo piccolo e medio borghese italiano (Psychologies, Instructions for Use, Attraverso la finestra). Non è nella mera rappresentazione o documentazione che si scorge la verità, se esiste: l’analisi della finzione così come della narrazione ha la capacità di mostrare il corso che si vuole dare alla storia.
“Il famoso ‘ideale’ che gli scultori classici perseguivano era, in realtà, un modo di consolarsi della solitudine del corpo. Tutte quelle sculture, adesso, mi pare, erano messaggere di un desiderio controllatissimo inesauribile”. Questo è quanto scrive John Berger in Fotocopie. Le immagini di In the light of you, possono considerarsi alla stessa stregua di figure scultoree su cui trasferire parole, sensazioni o in cui riconoscersi?
Non le ho mai pensate figure scultoree. Probabilmente possono apparire tali perché immobilizzate nel tempo che è proprio della fotografia, però per me sono e restano persone in carne e ossa, corpi vivi. E sono anche corpi che partecipano, che si muovono e lo fanno anche grazie all’incontro reso possibile dalla fotografia. Il desiderio controllassimo inesauribile è proprio una bella intuizione perché, in effetti, le figure fermate nel tempo delle fotografie – così come nelle sculture – ci sopravvivono e persistono imperterrite a mandarci messaggi da quell’aldilà materiale, che sono gli artefatti dell’uomo. Rispetto alla scultura classica la verosimiglianza con il reale e l’assenza di riferimenti storici o mitologici di queste fotografie permette a chi guarda di riconoscersi all’interno della scena.
Quale ‘verità’ è possibile scorgere nelle immagini di questo progetto, in definitiva, cosa incarnano?
Le immagini incarnano un invito che è quello, e non è buonismo ma una sentita necessità, di guardare l’aspetto umano dell’uomo. L’aspetto animico e di pensiero, il senso di libertà che nasce dall’incontro e dal dialogo. Mi pare fosse Guy Debord che diceva che il pensiero e l’intelligenza si sviluppano e (ri)vivono ogni volta in quel lasso di tempo che intercorre fra la domanda e la risposta. In quel momento siamo vivi. Trovarsi di fronte, incontrarsi, come dicevo sopra, significa essere vivi, essere corpo, carne del mondo.
Nel Novembre 2016, esce un tuo libro La Battaglia delle Immagini, Piccolo manuale di resistenza fotografica, edito da Postcart. Da esso estrapolo un passaggio, a mio avviso molto importante, nel quale scrivi “occorre fare differenza fra ciò che riguarda una moda del presente e ciò che ha generato o genererà il presente”. La domanda è: quanto questo progetto è calato in questa dimensione, e sorretto da questo pensiero?
Grazie per la bella domanda, mi fa ricordare quanto il progetto in effetti discenda dai contenuti del libro che, di fondo, vuole introdurre e invitare a procedere verso un’ecologia delle immagini e a realizzare una forma di medattivismo da compiersi soprattutto con quelle fotografiche. Una fotografia iconica così come, ad esempio, un dipinto celebrativo di un personaggio storico resistono al tempo e ci mostrano il presente del passato. L’immagine iconica ha ed è un peso enorme perché detiene il potere di condizionare il pensiero sulle cose, può definire chiaramente la realtà come invece sottrarla in maniera strategica per crearne un’altra lontana dalla verità, può indottrinare. Per quanto riguarda il progetto In the light of you, ammetto che vi sia per me la necessità come parte integrante e per la riuscita del progetto che l’immagine possa diventare iconica. Il perché è semplice: vuole essere un’icona creata insieme, come si è soliti dire dal basso, se questo esiste. Quindi, sì il progetto è sorretto da quel pensiero. Con In the light of you creiamo un’icona condivisa che racconterà un presente che è esistito per davvero, una serie di episodi del reale. Gli episodi del reale sono a tutti gli effetti le performance, i simboli della relazione creata.
Nel tuo libro scrivi “ciò che potrebbe interessare oggi, in relazione all’operato del fotografo di reportage, non è solo il bel racconto o la foto a effetto, ma la possibilità di creazione di una forma di comunità, di coinvolgimento che crei un senso di partecipazione”. È, quest’ultimo, lo spirito che sostiene In the light of you, oppure è un obiettivo ambizioso che speri di raggiungere ?
Scovi cose che, evidentemente latenti, appaiono poi nell’operare, probabilmente è un segno di coerenza. Si parlavo di fotografo di reportage perché spesso, a parte la committenza alle spalle (quando c’è), è un professionista solitario che probabilmente, suo malgrado, accetta il linguaggio che gli viene richiesto, talvolta a me rammenta la figura del funzionario. Io non sono reporter, ma credo ottimisticamente che questo progetto possa creare una forma di partecipazione. Fino a oggi hanno partecipato, a vario titolo, oltre sessanta fotografi e ho raccolto oltre cento fotografie alle quali posso aggiungere le circa venti da me realizzate.
Sant’Agostino, nel suo Soliloqui, scrive: “Capisco ora la grande differenza che c’è fra ciò che diciamo e ciò su cui diciamo qualcosa”. Ti chiedo: è possibile scorgere tale differenza all’interno delle immagini realizzate per questo progetto e, in generale, nell’ambito della fotografia?
Mi ricordo che nel libro uso una parola a me cara: il chiacchiericcio. Questo chiacchiericcio non è formato solo di parole ma è creato, invece e sempre più, dalle immagini e dalle parole sulle immagini e di immagini a confronto di immagini. Flusser questo lo aveva recepito e scritto diverso tempo fa. Si dicono cose per lo più superficiali e collegate alla moralità e soprattutto lo si fa su questioni delicate mettendole così su un piano di poca rilevanza spostando così l’asse della discussione sulla forma anziché sulla sostanza. Ad ogni modo sì, secondo me In the light of you segue questa riflessione di Sant’Agostino. Poniamo la questione, in maniera un po’ brutale: vi è una fotografia “iconografica” che è una rappresentazione figurata autoreferenziale, una documentazione che semplicemente dice, poi ce n’è un’altra che invece dice qualcosa su un argomento, questa seconda potremmo definirla fotografia iconologica, ovvero si tratta di una fotografia che (anche documentando) interpreta le ragioni contestuali e riesce a trasmetterle chiaramente e soprattutto ontologicamente, con il modo espressivo che lo strumento usato consente. A mio modo di vedere la prima può addirittura giungere a essere frivola, non essenziale e possiede la capacità di alimentare il cosiddetto chiacchiericcio, l’altra ci porta a riflettere.
L’assioma del non è vero di cui parli nel tuo libro, è un concetto che può applicarsi anche alle immagini In the light of you?
L’assioma del non è vero nel libro serve a riflettere soprattutto sul concetto di indicalità della fotografia. Quindi si parla sia di Peirce che di Barthes entrambi sono vissuti ben prima dell’avvento del digitale che su questi argomenti ha creato spunti di riflessione non sempre interessanti. In In the light of you, le scene fotografate sono mini performance che avvengono veramente innanzi al fotografo ma sono concordate. Non è vero significa che non è detto che quello che vedo, abituato come si è a dare alla fotografia un ruolo di attestazione della realtà, sia solo un prelievo. Il non è vero libera da costrizioni precostituite e evita di cadere nell’errore di scambiare il referente con il reale. Considerare che quanto è contenuto in un’immagine fotografica non è vero porta, in questo progetto, a vedere la fotografia con una distanza razionale che al tempo stesso ti accomuna sentimentalmente all’immagine stessa. In questo progetto chi partecipa decide di entrare a fare parte dell’immagine. Dico immagine come concetto esteso a tutto il lavoro perché nella differenza dei luoghi e delle persone che inquadra, l’immagine si ripete ed è sempre la stessa.
Nel tuo libro scrivi di “Mondi, Sistemi e Previsioni.. parli di lotta intestina fra immagini, di battaglia fra sistema guidato dai media che divora il mondo vitale e l’immagine democratica come resistenza e soprattutto di ecologia ed etica delle immagini stesse.”. “… Conoscere le immagini significa apprendere per leggere… Significa considerare le immagini come veicolo per costruire un archivio per un altro/nuovo mondo, la cui finalità sia proprio quella di allontanare la presenza dei sistemi.” In the light ofyou, nasce sui social e invita chiunque a prenderne parte e dare risalto quindi appartiene, è figlio di un sistema, quello stesso sistema che, come tu scrivi, è impossibile modificare e su cui non possiamo avere nessuna reale influenza. Qual è il senso di questo progetto e come è possibile allontanare la presenza di sistemi?
In effetti non nasce sui social, lì ci giunge circa sei mesi dopo la realizzazione delle prime mie fotografie. Non lo considero assolutamente un figlio del sistema anzi è una creatura che nasce nel mondo della vita come ogni essere vivente e che, per portare il suo messaggio, quasi parassitariamente, si serve del sistema. Questo, tra l’altro, è un comportamento assolutamente lecito negli ecosistemi. Possiamo dire di certo che si sta facendo conoscere su Instagram dove ho aperto un account dopo un’intervista che mi hanno fatto su artsy.com . Chiunque vi può partecipare. Il sistema è una macchina e non può essere fisicamente modificato e non possiamo avere reale influenza su di lui nel senso che non possiamo modificarne le sue regole di funzionamento. Solo chi lo ha progettato può farlo. Si possono però, a un certo momento, costruire canali nuovi, in questo modo si allontanano protocolli e linguaggi omologanti. Nel libro il mio approccio riguardo quel punto è quasi fiabesco. Ma non nel senso di fantastico, nel senso più profondo, cioè quello di entrare nei meccanismi remoti di comprensione dell’animo umano. Occorrerebbe immaginarsi immagini che combattono insieme e contro altre immagini, alcune vengono realizzate da sistemi omologanti le altre da umani che vogliono raggiungere con il dialogo l’intesa. Ho scoperto che esiste un’incisione allegorica del 1743 di William Hogarth che si chiama The Battle of the Pictures.
L’aspetto originale o specifico o maggiormente caratterizzante la fotografia è sempre stato il legame che essa intrattiene con lo sguardo dell’uomo.” (cit. La Battaglia delle Immagini). Quale sguardo prevale in questo progetto ‘performativo’?
Lo sguardo è un atto del guardare, del vedere. Sguardo è un sostantivo che crea l’immagine di una direzione che diparte dagli occhi e va verso l’esterno. Questa è una modalità di intendere lo sguardo ma è evidente che esiste anche uno sguardo interiore o meglio si potrebbe dire interiorizzato. Nel mio modo di pensare questa interiorizzazione significa aver realizzato una sorta di digestione dell’immedesimazione con il linguaggio visivo. Cosicché in questo progetto c’è stato uno sguardo interiorizzato che ha permesso di esprimere visualmente dei concetti non traducendoli, ma facendoli nascere già immagine. Nell’immagine poi ci sono gli sguardi delle persone ritratte e quello del fotografo.
“Chi meglio del poeta sa che non è la lingua il suo strumento ma egli stesso (il poeta) strumento della lingua”. Così Joseph Brodskij durante il conferimento del Premio Nobel. Si può dire la stessa cosa del fotografo?
Sì, credo proprio di sì. Poesia e fotografia come cinema e romanzo sono tutte modalità per scoprire, cercare e ricercare.
Secondo Burgin, il significato di una fotografia è tutt’altro che evidente; è, invece, il risultato di una interazione dialogica tra la fotografia, il contesto, gli spettatori. (cit. La Battaglia delle immagini). Qual è il sapere collaterale che, in questo progetto, non ha a che fare con la rappresentazione, in sostanza, cosa l’inquadratura non mostra?
Possiamo dire che sento mie le parole di Victor Burgin perché così dà una definizione di come ho sempre lavorato. L’interesse e la considerazione per lo spettatore, per me, oltre a essere un atto dovuto, è una dichiarazione ben precisa. Significa voler aderire alla cultura che è propria delle immagini, significa arrivare a fare parte della loro vita. Nelle fotografie di questo progetto taluni significati che si scorgono emotivamente sono simbolicamente evidenti: ad esempio può palesarsi l’idea del duello, dello specchio, del dialogo. Questo lavoro, come dicevo prima, non è nato come una trasformazione in immagini di pensieri, ma nella mia mente si è creato prima come immagine che ho poi adagiato su pensieri e concetti. Questi ultimi, nel nostro tempo, sono raramente guidati da immagini che nascono nella mente ma, viceversa, prendono forma da parole. In questa direzione, nel lavoro, il sapere collaterale è meno necessario per giungere al messaggio. Il messaggio che si manda non ha primario contenuto concettuale è l’architettura del progetto che la possiede, l’immagine invece entra con grande semplicità in sintonia con l’uomo, lo spettatore.
Nel 2007, un dirigente dell’agenzia di stampa internazionale Reuters, anziché affidarsi ai soliti professionisti, ha invitato i dilettanti a inviargli foto e video, chiedendo: E se i miei collaboratori fossero tutti i cittadini del mondo? Mi interessa sapere cosa pensi, nel senso più ampio, di questa iniziativa e se presenta affinità con il tuo progetto.
La fotografia può assumere contenuti nuovi non appena mette piede in un media come un quotidiano o una rivista perché entra in un contesto nuovo, che in fondo è una nuova immagine, tra l’altro molto più complessa. La prima differenza che scorgo è che il dirigente di Reuters fa come molti photo editor… “mandami tutto”… poi l’editing viene fatto nella redazione. La finalità del dirigente -io la intendo così – è quella di rendere il più possibile vicina al reale la documentazione, una presa diretta senza un controllo del linguaggio all’origine (le immagini fatte da non professionisti). Sarà il magazine a decidere quale linguaggio sarà più adatto alla sua esigenza pescando fra le fotografie. Il punto è che la notizia ha urgenza di essere accompagnata da immagini, tutti vogliamo vedere e subito! La mia call è un invito a mettersi nelle scarpe di un altro e provare a immaginare quella immagine a farla propria soprattutto perché se ne condivide il pensiero retrostante che, nella sua sintesi più assoluta è quella di porre un uomo di fronte a un altro uomo per ricordarci che siamo appunto umani e non c’è nessuna urgenza, nessuna emergenza. Grazie! Penso che la fotografia abbia tanto in comune con il concetto di soglia in Heidegger: una figura liminare, uno spazio della transizione, un luogo di discrimine, come espressione emblematica del limite che non è il punto in cui una cosa finisce ma, come per i Greci, ciò a partire dal quale una cosa inizia la sua essenza. Nel progetto In the light of you, è come se si fosse in teatro e si osservasse il palcoscenico: si alza il sipario, due attori/spettatori si trovano al centro della scena, chiamati in causa personalmente al loro ruolo di individui, cittadini, testimoni di un accadimento.
Giusi Bonomo
Foto copertina di Giorgio Barrera