INCERTI UMANI di Domenico Brancale
L’amore impossibilitato è un vortice a cadere.“Il vuoto del corpo blindato a quattro mandate” è la sua prigione – fredda – come la neve bianca a racchiudere in sé tutti i dolori possibili che ne derivano. I dolori nascono in concomitanza con la forte assenza, con il desiderio dell’oramai consumata passione e svaniscono con il sale: il sale scioglie la neve così come la lacrima scioglie ogni dolore. In questo corpo il calvario, il luogo del pensiero dove tutti i sentimenti vengono crocefissi, è il cranio.
Incerti umani, del poeta Domenico Brancale, percorre la consapevolezza della fine del noi, ancorato al desiderio di ciò che non è stato ma che è ancora vivo nella memoria. Il tempo fagocita queste circostanze nel momento stesso in cui si avvera la possibilità di fare a meno dell’altro, del tu e del noi. La resa di fronte a questa impossibilità porta a dimenticare per andare verso la luce e per scrollarsi di dosso l’unto dell’altro che continua a sporcare senza una ragione concreta. Lo scorrere del tempo accresce la rassegnazione e l’incertezza, espresse più volte con una forma che racchiude gli antipodi: oramai. Ora è la presenza, la certezza. Mai è l’assenza, l’impossibilità dell’avvenire di qualcosa che inevitabilmente ci porta all’accettazione di ciò che è diverso dal nostro disegno prestabilito. Se né ora e né mai esistessero svanirebbe anche l’incertezza. Il lavoro da attuare è quello di spietrare, togliere pietre, liberare il respiro dall’affanno, alleggerirsi dall’idea del doppio, di un gemello in cui ci riflettiamo da cui staccarsi, di cui si vuole fare a meno, “uno doveva, morire doveva”.
Incerti, gli umani, lo diventano nel momento della loro frammentarietà, nel punto in cui la voce si spezza e muore. È il momento in cui la parola diviene fiatata perché soffocata e condannata a perdersi, a vagare senza realizzare la propria compiutezza. L’essere umano diventa incerto umano. Questi sono i meccanismi che si attuano nel momento in cui avviene il distacco dall’infanzia rappresentata, in qualche modo, dalla creta o dall’argilla. È il momento in cui avvengono le prime ferite e in cui hanno luogo le prime crepe, i primi sanguinamenti che man mano ricondurranno a una rinascita. Parallelamente avviene il distacco dalla madre, dalle radici, dal latte, dal bianco che diventerà sperma fino a creare il legame con un’altra donna, un’altra madre. Mentre la terra natia rappresenta costantemente un eterno ritorno.
La sua lingua è sempre viva, itinerante, attraverso espressioni leggibili in modo interlineare, quali possono essere cera a sole che diventa di fronte al sole oppure per amore mio che nasconde la connotazione dialettale di colpa.
La Basilicata è la terra del calore e delle malelingue, delle radici che sradichi continuamente e che ti ricrescono sempre addosso sotto forma di rosa. Di spine.
Marianna Zito
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