In Libano… dove la Terra parla con il Paradiso
La chiamano the jungle e a vederla dall’alto fa impressione. Solitamente se guardi fuori dal finestrino dell’aereo hai una grande sensazione di libertà e una visione verso l’infinito più celeste. Guardare Beirut dall’alto, invece, ti soffoca. Sembra quasi di immergersi in un’infinita distesa di cemento che ti ingloba man mano che ti ci addentri. Eh sì… il paese dei cedri ti accoglie con un deserto di grigio e polveroso cemento.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito un minimo di quaranta metri quadri di spazi verdi per ogni abitante di una città. Beirut ne ha solamente 0,8. La città possiede solo sei giardini pubblici, la maggior parte dei quali privi di manutenzione o vietati al pubblico. Per fortuna c’è il mare ed all’arrivo il tramonto è semplicemente meraviglioso.
Da Giardino d’Oriente, rasa al suolo nel corso dei quindici anni di guerra civile, Beirut è divenuta oggi una grigia massa d’asfalto e cemento. A distanza di tanti anni sono ancora visibili le tracce di un conflitto devastante. Muri sventrati, palazzi distrutti, fori di artiglieria sulle pareti degli edifici e soprattutto tante mastodontiche gru che ricostruiscono a più non posso. “La famiglia Hariri ha svenduto il Paese agli arabi” ci racconta un ragazzo cresciuto in quegli anni drammatici. Oggi si fa fatica a riconoscere la vera Beirut. La green line, linea divisoria tra Beirut ovest e Beirut est, che per un assurda coincidenza, correva lungo l’attuale Via di Damasco, è solo un lontano ricordo e quella striscia di terra di nessuno, sorvolata solo da granate e proiettili, in cui per decenni anni è cresciuta solo spontanea vegetazione, ha lasciato il passo al cemento ed alla gentrification. La città spaccata in due nel periodo 1975-1990 in cui la separazione netta tra il quartiere a maggioranza musulmana (a ovest) da quello a maggioranza cristiana (a est) ha lasciato cicatrici indelebili nella mente dei beirutiani, ha come simbolo l’Holiday Inn che si affaccia sulla marina vecchia, vivisezionato da proiettili di ogni tipo e grandezza, esattamente come il suo gemello di Sarajevo.
Beirut è una città brutta e soffocante ma ha una storia dal fascino unico e incomparabile come poche altre al mondo.
La città conta oltre un milione di abitanti ma l’area metropolitana conta più di due milioni di libanesi residenti, su una popolazione nazionale di circa 4 milioni. A questi però bisogna sommare i circa 230.000 rifugiati registrati nei 12 campi-profughi palestinesi creati dopo il 1948 per accogliere i profughi messi in fuga dall’avanzata del sionismo in Palestina (lo status di profughi palestinesi è diverso dagli altri profughi della terra, essendo lo status ereditario), i 190.000 profughi non registrati, e 1,5 milioni di siriani in fuga dal conflitto. Una situazione a dir poco esplosiva che si respira nell’aria.
Siria e Israele incastonano il Libano in un piccolissimo lembo di terra grande quanto l’Abruzzo dove, se a nord i cedri si ergono maestosi sotto il sole invernale, a Beirut l’odore nauseabondo e la melma dei campi profughi palestinesi ti offuscano il pensiero. Si, perché se il minuscolo campo profughi di Mar Elias situato nella parte sud ovest della metropoli, è a tratti ordinato e pulito, anche se claustrofobico, quello di Sabra e Chatila costituisce un “non luogo” in cui oltre 30.000 persone malnutrite vivono stipate in un inferno costruito per chi dall’inferno è già fuggito una volta. Anime perse che sopravvivono nell’utopica attesa di un ritorno in Palestina. I bambini non vanno a scuola, non esistono sistemi fognari, i rifiuti giacciono ammassati ovunque, l’acqua è infetta e le condizioni igieniche sono drammatiche. Oggi Chatila ha accorpato “la gemella” Sabra in un tutt’uno senza soluzione di continuità. Ti rendi conto che ne sei fuori solo quando non vedi più lo sventolio delle bandiere palestinesi.
La Palestina, dannata e bella, anche qui in Libano è sempre di grande attualità. “Un giorno torneremo a Gerusalemme”, i bambini sono certi che prima o poi accadrà. I loro nonni furono cacciati dalla Palestina e Gerusalemme l’hanno vista, i loro genitori no, sono nati qui nel campo e non hanno mai guardato dal vivo la città santa. Loro hanno assistito alla mattanza del 1982. Il massacro di Sabra e Shatila, l’eccidio compiuto da Falangi Libanesi ed Esercito del Libano del Sud con la complicità dell’immancabile esercito israeliano di Sharon, di circa 3000 civili, prevalentemente palestinesi e sciiti libanesi “L’assedio di Beirut, Sabra e Chatila: di là dalla nebbia del tempo resiste la memoria di quell’insulto alla vita. Un incubo, le fitte che dà una vecchia ferita quando si fa sera e di colpo piove e ti accorgi che è finita l’estate. E allora pensi ai vivi e ami i morti rimasti laggiù. A Beirut”, così scriveva Igor Man.
La pioggia scende forte a Sabra e Chatila e al di là della nebbia del tempo c’è l’insulto alla vita. Migliaia di corpi giacciono ancora ammassati l’uno sull’altro nella squallida fossa comune sotto di noi. Sullo sfondo le immagini del massacro fanno eco ad un porcile sterrato ricoperto di rifiuti. L’odore che agisce come l’arte rendendo percepibile ciò che altrimenti rimarrebbe nascosto. Qui a Beirut, per i palestinesi non c’è rispetto da vivi, ma neppure da morti. Del resto la Palestina non era forse una terra senza popolo per un popolo senza terra?
Un massacro quello di Sabra e Chatila per il quale, in un mondo dove i crimini di guerra sono sulla bocca di tutti, nessuno ha mai pagato. Né gli esecutori, come l’allora capo dei servizi delle Falangi, Elie Hobeika ex ministro del governo libanese, né i mandanti come il defunto Ariel Sharon, l’allora ministro della difesa israeliano.
Ma il Libano è anche resistenza, forza e compromesso. In Libano c’è Hezbollah, il Partito di Dio, nato proprio in quel fatidico 1982. Oggi, la forza dell’ala paramilitare di Hezbollah è cresciuta a tal punto da essere considerata più potente dell’esercito regolare libanese. E lo è nelle parole dei libanesi stessi. Mi chiedo costantemente come abbia fatto il Libano a salvarsi dall’arrivo dell’ISIS che bussava alle porte del Medio Oriente fino a pochi mesi fa. Come possa, un Paese così piccolo, reggere il colpo dei milioni di profughi e delle decine di campi di rifugiati, come possa Beirut resistere alla costante pressione israeliana e alle tensioni dell’intero scenario mediorientale. “Grazie a Hezbollah, il Libano sopravvive” mi dicono in tanti. E allora bisogna andare per capire, vedere con i propri occhi e parlare con le persone del posto. Semplicemente, per comprendere e farsi un’idea di come va il mondo, bisogna osservare e farsi raccontare la realtà dei fatti da chi la vive in prima persona.
Raggiungiamo il cuore di Hezbollah, precisamente Mleeta, il luogo sacro della resistenza libanese, arroccata lassù dove The Land speaks to the heavens, una collina remota situata nella regione di Nabatieh, a circa 70 chilometri da Beirut. Infiniti tornanti, un paesaggio che da lunare diventa montano, con sullo sfondo il Mar Mediterraneo in tutta la sua dolcezza. Qui dal 1982 al 2000 prima e nel 2006 poi, la resistenza libanese ha combattuto l’avanzata dell’esercito israeliano ricorrendo a tecniche di guerriglia e di sabotaggio, opponendo all’imponente arsenale nemico, coraggio, spirito di sacrificio e fede. A Mleeta c’è la salvezza del Libano, quella forza complementare al governo libanese che regola le sorti di un Paese sotto la costante minaccia israeliana. Sulle colline dove “la Terra parla con il Paradiso” c’è uno splendido museo che narra la storia recente del Libano e una versione dei fatti che nessuno ti ha mai raccontato prima. Le trincee dei miliazini, i tanks israeliani distrutti, armi automatiche, fortificazioni, rifugi, gallerie sotterranee. Qui si celebrano le “vittorie” su Israele. Ogni tappa è accompagnata da cartelli esplicativi in arabo e inglese, il tutto sotto una pioggia falcidiante e l’occhio vigile di un miliziano che nei dettagli spiega come ormai Hezbollah sia qualcosa in più di una semplice ala paramilitare. “Oggi siamo in grado di tener testa ad Israele ed è per questo che in Libano si vive in pace da oltre dieci anni…”.
Quando il viaggio in Libano sta per terminare non posso fare a meno di sentirmi parte di qualcosa terribilmente più grande di me. Beirut è come una puttana, che un giorno potrebbe sparire dalle carte geografiche o forse no, magari sarà la nuova Atlantide, assediata, distrutta, ricostruita, e ancora attaccata, demolita, risorta per infinite volte. Ma fino a quando potrà resistere questa polveriera? Potranno mai guarire le vecchie ferite? Forse dovremo aspettare solo la prossima scintilla e Beirut esploderà di nuovo.
Rientro a casa con l’odore di Beirut che mi ha seguito. Ho la nausea. Questo è un mondo alla rovescia.
Tratto da www.magazininesistenti.it
Foto e articolo di Salvatore Di Noia©
© RIPRODUZIONE RISERVATA