Il viaggio VERSO SANKARA
Bianco e nero. Europeo e africano, italiano e burkinabè. Alberto e Boubakar. É tutto questo, una duplice identità fatta uno, Alberto (Boubakar) Malanchino, che porta il suo viaggio al Teatro Franco Parenti. Un viaggio che, prima di essere “Verso Sankara” è verso se stesso, quella parte di sé nata in Africa e poi ripudiata, per anni, nella speranza di essere soltanto uno. Finché la vita non induce a fare pace con la propria duplicità, e ad accoglierla.
Così Alberto torna nel luogo dove è solo Bouba, cercando di prendere le misure di un passato di cui la memoria ha sfumato i contorni, cercando di tacitare il nazarà, l’europeo, che alberga in lui e che osserva quel mondo come chi vi viene catapultato all’improvviso, soverchiato da una girandola di riti, consuetudini, abitudini o semplicemente porzioni di realtà diverse. A cominciare dal numero infinito di parenti, dalle disparità economiche, anagrafiche, di vita che li segnano. Così, questa ricerca del sé nero diventa una wamba, una danza, vorticosa e sorprendente, fresca e divertente, e anche il corpo si scioglie e recupera un ritmo, un suono – quello incarnato dal vivo dalle percussioni di Moussa Sadou, che ha a che fare con la terra. Ma se sei burkinabè e vuoi riappropriarti di questa parte della tua identità, non puoi non incappare nella storia dell’uomo che del Burkina Faso incarna la storia, e i cambiamenti. Thomas Sankara, Tomà, per tutti. L’uomo che ha voluto fare del Burkina il “Paese degli uomini integri”, un luogo dove tutti potessero avere secondo le proprie necessità, dove le donne acquisiscono in pochi anni una centralità prima impensabile, dove si combatte per cancellare l’analfabetismo e abbattere l’incidenza delle malattie che falcidiano l’Africa. Il Paese dove “se qualcosa può essere sognato, può anche essere fatto. Dove si pianta un albero a ogni nascita, dove ai concerti si entra offrendo semi di piante allo stato, per fare arretrare il deserto. Così, tutta la prima parte di questo Verso Sankara ha l’allegria e la leggerezza libera dell’utopia, di chi sogna davvero di poter fare la rivoluzione, dentro e fuori di sé, riappropriandosi di una storia e di una terra di cui ritrova l’orgoglio dell’appartenenza.
Un tono che cambia completamente nella seconda parte, quando il sogno della rivoluzione lascia spazio all’incubo della peggiore delle conclusioni, quella che il sognatore si è rifiutato di vedere, fino a “morire per amicizia”. Ucciso, insieme al suo sogno, dall’uomo che considerava un fratello, e prima ancora sfiancato dalla fatica della politica quotidiana, quella che si fa scontro e guerra aperta tra sognatori diventati uomini di potere. A questo punto la ricerca di Malanchino assume i toni del reportage, e il viaggio – che si sviluppa in una scena spoglia, riempita solo dalla vicenda e da un bidone, luogo di socialità prima e simbolo poi – costruito insieme a Maurizio Shmidt, che ne cura la regia, si fa sempre più simile a quello del cronista, che cerca i racconti di chi a Tomà è stato vicino fino all’ultimo, affrontando le torture dopo il crollo di tutto ciò in cui avevano creduto. La memoria si fa sofferta, diretta e intensa, tra il rimpianto di chi non si perdona di non aver fatto abbastanza per proteggere il proprio condottiero e con lui le speranze. Chissà se, nel suono della chitarra di Tomà, può ancora spandersi il seme di una rivoluzione che non sia morta con lui…
Chiara Palumbo