Il Teatro del Carretto e il ventre straziato di Pinocchio
Senza dubbio su Internet non c’è bisogno di un’ennesima recensione sul Pinocchio del lucchese pluripremiato Teatro del Carretto, ormai un classico a sé, eppure eccoci qua: siamo stati ancora una volta ospiti del Teatro Piemonte Europa, nel Teatro Astra di Torino, che per concludere splendidamente il 2024 ha ospitato questa dolente perla dal 27 al 29 dicembre, per tre sole repliche.
Siamo sempre dentro la storia di Collodi, ma tutti i preamboli magici e fiabeschi sfumano nel niente: Maria Grazia Cipriani ha scelto di concentrarsi sul ventre scuro e straziato di uno dei più autorevoli romanzi sulla formazione adolescenziale della cultura italiana (poi mito consolatorio e colorato grazie a Disney, nel ’40) e quindi la regia insiste sul fango, sull’horror metafisico che unisce adulti e bambini poiché il materiale di base è la tentazione biblica, un cult dell’Occidente. Pinocchio come l’avesse scritto Ovidio ma anche un evangelista, quando ci si accorge della sovrapponibilità di Eden e Paese dei Balocchi. Di solito infatti Pinocchio viene sminuito nel ruolo di monello dall’ingenuità cruda e crudele, ma in realtà è un giovane vecchio precipitato in sé stesso e condannato dal proprio milieu: Giandomenico Cupaiolo, che lo incarna sul palco con guizzante e maestria, fra smorfie e sollazzi, si muove come una marionetta perché lui è questo, un sacco con un’anima vuota (o colma di dubbi) aggrappata ad un groviglio di fili mossi con sadica approssimazione da qualcuno che Pinocchio stima, ma che è la prima causa dei suoi mali. Geppetto. Pinocchio a volte sembra esistere solo nei suoi sogni sanguinolenti, a tratti onanistici e poi quasi incestuosi. C’è proprio un odore, in sala, di masochismo e cose inesprimibili. Ci sono l’incontro-scontro col potere, l’iniziazione al sesso, la sottomissione e la sopraffazione. Il protagonista è costretto a rivivere fino allo sfinimento i suoi errori, a lamentarsi e spiegare le proprie ragioni mentre il senso di colpa per essersene andato con i burattini lo dilania a più riprese, e da certi spioncini i mostri del passato e del presente eterno lo tormentano sibilando e bussando e sbattendo. Gli unici che hanno la facoltà di parlare sono Pinocchio e la sua coscienza, riassunta nella fata poco turchina e anzi totalmente complessata di Elsa Bossi, isterica come il grillo in cura per bipolarismo; amica ma pure madre apprensiva e fidanzata gelosa al punto di fingersi morta per testare la sincerità del suo dolore, dunque dell’amore. Tutti gli altri – il Geppetto domatore, il Gatto e la Volpe, Mangiafuoco, Lucignolo – loro al massimo possono sussurrare alle orecchie della marionetta, la quale con zelo estremo riferirà al pubblico i loro concetti sincopati, svolazzando da un’inutile piroetta all’altra, sempre a rincorrere il vuoto per abbracciarlo come un Pulcinella avvinazzato, o un Arlecchino strafatto. Tutti poi, tranne il protagonista e la fata, devono indossare delle maschere, e alcuni si muovono rigidi, con difficoltà, anche loro forse animati da fili invisibili; incespicano soggiacendo a delle articolazioni legnose che li fanno apparire storti e striscianti. Altri, i responsabili maggiori come il padre o il viscido del circo, si districano da sé stessi con una maggiore scioltezza che risulta se possibile ancora più inquietante.
Il luogo dello spettacolo è un’arena semicircolare di trappole e dolore, ma essendo Pinocchio un personaggio teatrale per natura, la sensazione è di trovarsi nella sua mente; un palco nel palco, il contrario dello sfondamento della quarta parete: qui anzi ne vengono erette altre sei per ingabbiare il protagonista. Simile ad una Plaza de Toros, la palizzata lascia intravedere il dietro le quinte (il suo subconscio), dal quale emergono gli antagonisti brulicanti, affacciati nelle minuscole feritoie o diretti invasori del campo d’azione. A livello estetico l’intera operazione funziona in modo inappuntabile grazie alle intuizioni di Graziano Gregori. Non solo la scenografia appena descritta, ma i costumi ancor di più comunicano un senso di gotico e lirico disagio, scomodità, polvere: Pinocchio è tutto nel suo nasino di plastica, Geppetto è a torso nudo e poi col traje de luces, il capo del circo è in mutandoni e giacca da camera, mentre la testa della fatina è costretta in una cuffietta azzurra. E poi le luci di Angelo Linzalata, il suono di Hubert Westkemper, tutto concorre alla creazione di una melodia macabra che omaggia il teatro come condanna, e la cui teatralità cresce e dilaga attraverso il cabaret, il melodramma, il grottesco. In questo senso, per esempio, Ridi pagliaccio di Leoncavallo è ben più che azzeccata.
Ciò che colpisce, infine, oltre al prodotto stesso, è l’affiatamento dei corpi degli attori, e l’orchestra dei gesti e delle movenze e delle strategie messe in atto per restituire al pubblico non solo un contenuto, ma la sua intensità, il peso specifico che questa storia si porta appresso, garantendo in questo modo un’occasione di teatro intelligente e maturo. Il cast completo comprende, oltre ai due già citati, Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani, Nicolò Belliti, Carlo Gambaro, Ian Gualdani, Filippo Beltrami.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Filippo Brancoli Pantera