Il singolo “Who” anticipa il nuovo album dei Black Flowers Cafe
I Black Flowers Cafe tornano con un nuovo album. “Flow” è un viaggio emozionante in cui la wave di Keep It Up e il jungle pop di “Who” si intrecciano con gli esotismi sudamericani di Caribe e quelli africani di Kinshasa. Un itinerario sonoro che rincorre luminosi echi indie (Cocktail Party, Stage One) e intime sfumature dream pop (Up The River, January). Se il sound della band è aperto alle contaminazioni, i testi riflettono un delicato intimismo che trova conforto nei romanzi di Sony Labou Tansi ed Emmanuel Dongala, così come nei versi di T.S. Eliot e nella nostalgia di un passato reale e immaginato. Flow è un disco da ascoltare come si faceva un tempo, dall’inizio alla fine. La sua circolarità unisce domande e risposte in un flusso di dieci suggestioni che in questi giorni difficili rappresentano una fuga affascinante dalla realtà.
Biografia
I Black Flowers Cafe si formano nel 2010 e all’attività live accostano un intenso lavoro in studio che sfocia nei due Ep collegati, Rising Rain (2011) e Falling Ashes (2012), e nel primo album omonimo autoprodotto (2012) che raccoglie apprezzamenti in Italia e all’estero. Nel 2014 è la volta del doppio singolo Be/polar, in cui il suono indie rock degli inizi abbraccia la sperimentazione elettronica. L’anno successivo viene pubblicato in free download Mintaka ii, brano suonato in anteprima da Simon Raymonde su Amazing Radio, che ibrida il sound del quartetto con chitarre dreamy e fascinazioni world music. Nel 2017 esce per Ghost Records l’Ep Islands, preludio al secondo album Flow, pubblicato da Lumaca Dischi.
Keep It Up È il brano più vecchio dell’album. Molte di queste canzoni sono nate durante l’estate, nella soffitta di Antonio. Keep It Up ci girava in testa da un po’, raccoglie i suoni cupi degli inizi e anche il testo è abbastanza oscuro, con qualche riferimento inconsapevole ad Amleto.
Who Una canzone positiva dopo l’inizio oscuro, è nato tutto dal coretto e il testo si divide in strofe riflessive e ritornelli ricchi di svariate citazioni.
Out of Breath Parla di quanto sia difficile comunicare al giorno d’oggi. La frase iniziale però ce la portiamo da anni, “le stelle non sono abbastanza” ha il sapore di speranza. Musicalmente, è stata la chiave di volta per un uso maggiore delle percussioni, per la felicità di Antonio, e di un basso più presente, con la benedizione di Gaetano. Sul finale ci siamo sbizzarriti con le voci.
Kinshasa Forse l’intro dice tutto: il suono di un fiume, bassi profondi e ritmi che si incastrano. Abbiamo voluto una voce lontana, come fosse un dialogo interiore. Le chitarre a cascata sono merito di un effetto ipnotico del pedale di Angelo, di cui va molto orgoglioso. L’immaginario è saltato fuori dalle pagine di L’uomo di vento di Emmanuel Dongala.
Caribe Il pezzo è nato da una prova di Out of Breath, eravamo in sala prove e Antonio ha cominciato questo ritmo al quale Fernando è andato dietro col timpano. Poi sono arrivati i tappeti di chitarra di Angelo e il basso di Gaetano che fa il riff principale. Il testo prende ispirazione dalle poesie di Derek Walcott e dal carnevale di Haiti.
Never Trust Me Equilibra la parte esotica del disco con un pop più lineare. Forse è una delle canzoni più tristi che abbiamo scritto. Parla d’infanzia e di una fuga da un presente che magari non è come ce lo immaginavamo.
Cocktail Party Il titolo dice tutto, è una canzone da ascoltare al tramonto. Possibilmente con un buon cocktail in mano. Il riff di chitarra a Fernando esce ancora una volta su dieci, ma si rifà con il synth del ritornello. Ci siamo divertiti a rifare l’indie degli anni ’00 con un po’ di Bronski Beat. Il testo è piuttosto polemico e se la prende con la superficialità che ci circonda.
Up the River È uno dei brani più emozionanti, anche nei live. La suggestione è arrivata da Nemico del popolo di Sony Laboy Tansi, ancora una volta abbiamo voluto suoni naturali a fare da sottofondo a un lungo crescendo.
January Altra canzone triste, però rispetto a Never Trust Me è più tenera. C’è anche più speranza nel testo. Ci siamo affidati ai synth e a uno dei nostri ritornelli più melodici.
Stage One Eravamo indecisi fino all’ultimo su questo brano. Tanto da inserirlo come canzone conclusiva. Il testo è ispirato a un libro di Jonathan Coe, La casa del sonno. In realtà nasce dalle ceneri di una ballata in tre quarti che ci portavamo da un po’ di tempo. Ci piaceva l’idea di sospensione che dà e, soprattutto, finire con la sola voce che risponde alla domanda iniziale del disco, per poi far risuonare l’intro.
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