“Il sentiero dei figli orfani” destinati all’eterno ritorno
“Ho deciso di andare via dalla mia terra perché non l’ho più accettata, mi stava stretta come quando non ti entra più una giacca e la si butta via.”
La chiave di lettura, il senso del romanzo è qui, in questa affermazione, nel non accettare la propria terra perché la si vede come un limite e poi rimpiangerla per sempre. La voglia di evadere, di cambiare la prospettiva, fuggire dal posto che si sente stretto che non offre futuro, che imprigiona tra le montagne su cui è adagiato lo spirito di libertà che solo un adolescente può avere ancora.
“Il sentiero dei figli orfani” di Giovanni Capurso (Alter Ego Edizioni,2019, pp. 204, euro 14) è la storia di Savino Chieco, del suo passaggio dall’infanzia all’adolescenza, dal bambino che è all’uomo che diventerà, e proprio come tutti i passaggi non è privo di amarezza. San Fele è un piccolo paese di tremila abitanti nell’entroterra lucano, ha un ruolo fondamentale nel romanzo e può comprenderlo fino in fondo chi ha potuto visitare questi luoghi, carpendone l’essenza; posti in cui il progresso ha faticato a salirne i tornanti, tralasciando pezzi lungo la strada. La Lucania è amara, impervia, povera ma allo stesso tempo è vera, severa, onesta, rude nell’esternare le sue verità e ancora, ogni singola pietra che la compone è storia di vita e mistero. La Lucania è fatta di silenzio, rigido, lo stesso silenzio che urla crudeli verità.
Inizio degli anni novanta, Savino ama correre nella natura con il suo amico Radu, è estate, il clima è torrido, al rientro scopre che la nonna Giulia è morta, la matriarca della famiglia, donna equilibrata, lavoratrice, silenziosa. Il più sconvolto è Michele, padre del bambino, figlio della defunta, e riuscirà a superare la depressione solo grazie alla moglie Carmela, che nel romanzo rappresenta il porto sicuro, pronto ad accogliere le barche vittime, ognuna, del proprio mare in tempesta. Lo zio Gaetano è il filosofo per eccellenza, ha studiato e ama leggere, ha le sue idee, che esterna a volte in modo bizzarro, ma nessuno osa contraddirlo poiché non potrebbe poi far fronte alla discussione. Aldo è il fratello, nonché rivale in amore di Savino nella conquista di Miriam fanciulla di città, apparentemente audace. Adamo è il Caronte del romanzo, traghetta Savino nel passaggio infanzia-adolescenza.
“Rimango concentrato sulla fissità della natura, provo a rivivere tutti quegli squarci di silenzio che un tempo sono stati l’arabesco di una tela fatta di suoni sommessi.”
I luoghi contornati da una natura incontaminata fanno da sfondo, con la loro simbologia, agli eventi che si susseguono nel romanzo. Capurso ritorna qui alla simbologia e alla filosofia della natura di Telesio.
“Da bambino mi sembrava che degli spiriti si nascondessero tra gli anfratti del borgo, sotto i fiochi lampioni dei vicoli che stavo percorrendo. Gli anziani, tra cui il cantoniere, giuravano che questi spettri vagabondi, discesi dalle querce pendenti che accerchiavano il Castello, ascoltassero i racconti delle masciare accovacciate sui gradini di pietre laviche e calce delle gualchiere; porgevano l’orecchio alle storie del tempo che fu. Raccontavano del Bradano, nato per traghettare le anime dei morti verso l’aldilà, scortate dai pini loricati antichi guerrieri che vegliavano alle soglie dell’oltretomba.”
Il linguaggio poetico, viaggia qui in simbiosi con riscontri filosofici tangibili. Altro cardine del romanzo è il rimpianto, di ciò che è stato e non tornerà più. Savino si rende conto di questa realtà con tristezza, ha perso tutto inseguendo la sua idea fallace di libertà. Savino fugge perché è solo, ritorna sentendo ancora più profondamente quella solitudine perché a ciò si unisce l’amplificarsi del tempo perduto.
“Ognuno di noi è simile a quelle stelle, deve affrontare la sua solitudine specchiandosi nel riflesso altrui.”
Giovanni Capurso rende assordante il silenzio di quei luoghi misteriosi, capaci di avvolgere l’esistenza di arcana magia e di far carpire l’anima dalla voce delle masciare che cantano i loro incantesimi. Il silenzio e il senso di vuoto, da sopra i precipizi, rubano l’anima del lettore, lì inerme, a farsi cullare dal vento che alita frescura tra le foglie, in un torrido pomeriggio estivo, mentre le parole si susseguono a dipingere gli eventi.
Marisa Padula