Il Regio abbina Beethoven e Dvořák: Calderon dirige l’orchestra
Accade che nell’estate del 1806 il conte Von Oppersdorf dell’Alta Slesia chieda a Ludwig Van Beethoven di comporre qualcosa per lui: a marzo gli viene presentata la Quarta Sinfonia, eseguita poi pubblicamente a novembre dello stesso anno in un periodo denso di impegni musicali (erano già in cantiere la Quinta e la Sesta). Robert Schumann, critico e compositore, la definì una slanciata fanciulla greca fra due giganti nordici (ovvero le più note Terza e Quinta). Più di mezzo secolo dopo, nell’89, in Boemia, un Antonín Dvořák di mezz’età stava componendo l’Ottava, detta poi l’Inglese per via del gran successo ottenuto a Londra negli anni novanta. Per approfondire gli aneddoti dietro queste due perle melodiche, e per scoprire tutti i dettagli tecnici relativi alle stesse, rimandiamo i gentili lettori al programma di sala completo redatto dal Teatro Regio, che sabato 29 maggio le ha proposte al suo pubblico per una cifra davvero modica.
Ore 19.15: il foyer è pieno di signore appena coiffate, ordinate, eleganti nei loro foulards che le difendono dagli ultimi sbuffi di vento primaverile. Tra loro, anche alcuni giovani universitari. Ore 19.30: puntualissima, la voce nel megafono chiede di spegnere i cellulari, e prima che le luci calino, dedica l’evento del giorno a Carla Fracci, scomparsa appena due giorni prima. L’applauso per la regina italiana della danza dura quasi cinque minuti che risuonano di una certa malinconia: un’altra artista perduta, un altro orgoglio che se ne va, l’ennesima appendice esiliata da un immaginario già sguarnito che si sta ulteriormente ed inevitabilmente sgretolando.
Trentanove archi, diciannove fiati, una percussione. Sul podio sale Rani Calderon, l’israeliano classe 1972 che ha riaperto i battenti del Regio dirigendo La Traviata. Con Beethoven, Calderon è a suo agio: riescono più che bene tutti i virtuosismi, le spirali, il dirompente Allegro vivace, i crescendo prepotenti e poi anche fini, ma soprattutto quel moto perpetuo e quasi inerziale che si schiude col fluire delle note. Con Dvořák, tuttavia, il maestro riproduce qualcosa di davvero sorprendente: è tutt’un’elegante ed allegra danza di archetti, ma poi emergono magniloquenti gli ottoni in un’energica e veemente resa che non ammette critiche. Quasi pop verso la fine (come dire? Cinematografico!), con quel baccanale conclusivo, fulgido ed esuberante, arabescato ed effervescente, tanto da ridestare quegli ingegneri trascinati dalle fidanzate di lettere o filosofia a sentire qualcosa di meraviglioso; ma poi, se manca la sensibilità per il bello e il classico, anche di difficile fruizione. Gli applausi partono alle 21.10 e si concludono alle 21.17: il pubblico è contento, molti volti lasciano trasparire entusiasmo e compiacimento nonostante le mascherine. Intervistate da noi, due distinte signore abbonate da anni – Edoarda e Mirella – confermano che soprattutto la seconda parte è stata proprio emozionante, ci siamo commosse, e poi non so se ha notato… ma il direttore è stato bravissimo: sapeva tutto a memoria; non solo non guardava lo spartito, non aveva proprio un leggio davanti! Bellissimo, davvero un grande. Per quanto riguarda l’Ottava, invece… secondo noi non è tra le più belle di Beethoven, ma anche in quel caso Calderon è stato capace di renderla fruibile anche per chi non la conosceva.
Davide Maria Azzarello