“Il mondo in testa” di Gegè Telesforo – L’intervista
Lo scorso 27 marzo è uscito il nuovo album di Gegè Telesforo, intitolato “Il mondo in testa” (qui la recensione) un disco che racchiude ritmi e sonorità molteplici, che infondono un profondo senso di unità, in una chiave positiva e ad alta vibrazione di anima e cuore. Abbiamo avuto l’occasione di fare qualche domanda a Gegè Telesforo per andare più a fondo nel nuovo disco.
Ho letto che c’è voluto un anno e mezzo per registrare il disco, ma immagino che il processo creativo del brani risalisse ancora a prima. Qual è stata la genesi di “Il Mondo in Testa”?
Io sono un musicista e una persona estremamente curiosa, curiosità che trova nella musica la sua massima espressione; da musicista, musicologo e comunicatore di musica, non posso fare altro che continuare ad ascoltare e ad aggiornare tutto il mio bagaglio culturale e naturalmente approfondire la conoscenza di tutte le cose che mi attirano e che mi danno gioia e soddisfazione; quindi,con questa premessa, dico che tutto quello che uno ascolta e metabolizza in qualche modo stimola la curiosità, che è alla base della nostra creatività. Quindi la mia creatività è alimentata da quello che vivo, che ascolto, e dagli incontri, e l’album ha avuto una gestazione abbastanza lunga nella realizzazione. Siamo riusciti a completare tutto il lavoro con Pasquale Strizzi, che è il mio co-producer e co-arrangiatore fino al mastering finale di Luca Bulgarelli, nell’arco di un anno e mezzo, però i brani originali li avevo in qualche modo già “addomesticati” ormai da un paio d’anni. L’ultimo album che ho prodotto è stato per la Rope A Dope, etichetta americana, intitolato “FunSlowRide”, un album molto complesso, con la partecipazione di tanti artisti americani, amici, voci a me care di musicisti che nel frattempo hanno consolidato la loro arte e il loro talento, come Alan Hampton, Sashal Vasandani, Johanna Teters, che negli ultimi anni sono diventati degli artisti di riferimento della nuova scena jazz e indie. Dopo sono stato chiuso in studio per realizzare l’album di Dario Deidda, intitolato “My favourite strings” sempre per la Rope A Dope americana. Questi due lavori in qualche modo mi hanno consentito di riflettere molto su quello che poi sarebbe diventato il nuovo album a mio nome, una sorta di condensato di tutto quello che ho metabolizzato e ascoltato nell’arco di una carriera intera, quindi tirando fuori tutta la curiosità e tutto il piacere del mettere insieme le diversità in musica. Non è stato facile trovare per le varie composizioni i groove e le architetture ritmiche sulle quali far rotolare melodie e armonie, però l’idea era di fondere i vari linguaggi, le varie “spezie” per creare, anche ritmicamente, qualcosa di originale senza rifarmi a degli stereotipi ritmici. Per un album nuovo, pensato per raccontare un lungo viaggio, alla fine ho fatto questo lavoro incredibile di costruzione di ritmica e di tutto quello che ne è venuto fuori, si tratta pur sempre di un album indipendente e low budget, quindi ci ho lavorato tanto, con la collaborazione di musicisti con i quali lavoro da tempo, alcuni veterani, altri dei giovani talenti, che però si sono calati completamente in questo progetto. Mi sembra che il risultato sia abbastanza soddisfacente e io sono molto contento di questo lavoro.
La scelta dei brani non originali come è avvenuta? Parlo di “Cancion para Sara” di Sergio Aranda, “Nommo” di Jymie Merritt e “Time Tai Chi” di Enrico Intra.
Trovavo i brani in linea con gli altri nella parte melodica, poi sono stati “conditi” con le spezie che ci servivano per rendere il piatto originale e amalgamarlo con tutto il resto. La canzone di Sergio Aranda, compositore argentino, è meravigliosa. È un brano che ho imparato lavorando con il chitarrista Horacio Burgos, che è uno dei più grandi esponenti della chitarra e del folklore argentino, un grande maestro, insegnante e docente di musica a Cordoba in una delle scuole più importanti dell’Argentina. Lavorando con lui e con il bassista Carlos Buschini mi sono trovato in repertorio questo brano e, da quando l’ho scoperto, l’ho messo in repertorio, prima suonandolo dal vivo con il quartetto di Dario Deidda, poi insieme a Dario abbiamo creato questo arrangiamento e l’abbiamo inserito nel disco. La stessa cosa con “Nommo” che è una vecchissima composizione della metà degli anni Sessanta tratta da un album di Max Roach “Drums Unlimited”, brano scritto dal contrabbassista Jymie Merritt e già con una versione originale interessante, swing con una clave in sette; il tema mi sembrava formidabile e anche la clave in sette, che abbiamo caratterizzato con un groove a cavallo tra il konnacol indiano e l’afro beat. La struttura che ho dato, pur rispettando ogni singola nota della melodia, è più armonica: la versione originale si basa essenzialmente su due accordi che girano, un brano modale tipico di quel periodo, invece noi abbiamo dato una struttura armonica che lo rende anche molto godibile. Poi ci sono due momenti formidabili: il solo di pianoforte di Domenico Sanna doppiato dalla voce di Daniela Spalletta, formidabile, un momento che i giovani studenti dei dipartimenti di jazz si stanno già tirando giù perché è qualcosa di molto difficile, con intervalli ostici; e il solo di Alfonso Deidda al sax contralto, struggente. Il brano “Time Tai Chi” l’ho scoperto lavorando con il Maestro Intra, facendo le prove di un concerto con la sua Big Band a Milano: Enrico mi fece sentire questa sua vecchia composizione e me ne sono innamorato al primo ascolto, gli ho chiesto “posso filmartela?”, così mi sono portato via il filmato di due o tre minuti sul telefonino. Per chiudere il viaggio musicale di “Il mondo in testa”, “Time Tai Chi” era bello come momento da visualizzare, si tratta di movimento e spiritualità, mi sembrava il brano giusto col quale chiudere e abbiamo dato alla composizione una veste molto cinematografica, con suoni anche elettronici, anche se poi tutto è stato suonato. L’ambientazione che volevo dare era il traffico caotico di una metropoli, ma anche la tranquillità e la calma di una persona che ha fatto un lungo viaggio, che ormai è matura e che riesce anche nel caos a trovare il centro della sua spiritualità.
Le altre voci coinvolte nel disco, oltre alla tua, sono straordinarie: Daniela Spalletta, Lello Analfino, ma anche Simona Severini e Ainè, giovani promesse che ho scoperto grazie ai brani che cantano nel disco, come è avvenuto il loro coinvolgimento?
Intanto sono artisti, cantanti e musicisti che conosco da quando erano ragazzini e che seguo: Simona Severini è una bravissima cantautrice, insegnante di musica, suona la chitarra, scrive molto bene, ha già partecipato a progetti discografici importanti nel jazz, lavorando per esempio con Enrico Pieranunzi, col quale ha cantato melodie con testi originali anche di una certa complessità e mi sembrava la voce giusta da coinvolgere per un brano romantico, forse il più romantico e in qualche modo autobiografico, intitolato “Mille petali”, con la sua poesia e le sfumature, un brano che ha una melodia pacata, dal suono dolce, con due voci in unisono che si sposano molto bene e che cantano un testo ispirato alle poesie di Indira Nath Tagore, con immagini precise e sfumate. Ainè è uno dei migliori cantanti soul e r’n’b in inglese e in italiano che abbiamo nel nostro Paese, un musicista completo, pianista, chitarrista, un polistrumentista, canta qualsiasi cosa, apre bocca e fa centro. Anche i suoi dischi sono molto belli; quando aveva 17 anni lo portai con me in tournée, legata alla produzione di un album chiamato “Nu Joy”, poi l’ho portato con me alle Masterclass che tenevo a Los Angeles, dove ha continuato a studiare, è stato anche al Berklee College a Boston, poi è tornato e ha prodotto la sua musica e non potevo non coinvolgerlo in “Genetica dell’Amore”, brano che ha anche metabolizzato lavorando con me sul testo. Lavorare con i cantanti sulla realizzazione dei testi è molto importante.
Mi ha colpito molto “La religione dell’universo”: è il primo brano del disco, ma è anche l’ultimo, in versione demo con il pianoforte, che trovo magico. Ho provato a riascoltare il disco partendo dal demo agganciandolo alla versione ufficiale, l’album è un cerchio che si chiude perfettamente. Come mai hai scelto di includere la versione demo?
La versione demo di “La religione dell’universo” l’ho suonata al pianoforte e registrata col telefonino; quando l’ho data al mio ingegnere del suono dicendo “guarda che l’album lo chiudiamo con questa” lui ha riposto “perché non la registriamo bene?” ma io ho detto di no, perché questo brano è la genesi di tutto l’album, infatti se si ascolta bene, si tratta di una composizione veramente complessa, perché è una composizione circolare, non si ripete mai, tutta la stesura è in quei due minuti e dieci secondi. Se uno volesse fare un’improvvisazione dovrebbe ricominciare da capo, ha una stesura anomala ed è il brano che ha generato molti brani: le varie cellule armoniche presenti in “La religione dell’universo” hanno poi generato “Sentieri arditi” ma anche “Genetica dell’amore”. Il disco è un viaggio che inizia e in qualche modo finisce nello stesso modo, perché il ciclo bisogna riprenderlo, un po’ come il blues, che ha un inizio, ma non ha una fine, e la storia di questo disco è questa, di un viaggiatore che a un certo punto si deve riposare, però la borsa è sempre pronta e prima o poi tocca ripartire.
Per i concerti dal vivo saranno presenti Domenico Sanna al pianoforte, Christian Mascetta alla chitarra, Michele Santoleri alla batteria, che hanno preso parte al disco, e poi Pietro Pancella al basso e Miriana Faieta alla voce e tastiere.
Si tratta di un giovane quartetto, tutti residenti a Chieti, musicisti super preparati e bravissimi, che già suonano con me da oltre un anno e che vanno a fare concerti come band “Koinaim”, che ho promosso portandola con me nella produzione del programma televisivo “Variazioni sul tema”. Domenico Sanna è uno dei migliori pianisti jazz in circolazione, suona con me da quando aveva 22-23 anni e oggi è uno dei musicisti più richiesti. Nel disco c’è anche Seby Burgio che ha scritto con me “Mille petali” e Pasquale Strizzi, un musicista fortissimo, di scuola americana, diplomato al Berklee College of Music di Boston in produzione e arrangiamento.
Ci sarà un terzo singolo dopo “Genetica dell’Amore”?
Penso che sarà “Mille petali”, abbiamo scelto come singoli i brani che sono un po’ più easy nell’ascolto e nell’approccio.
Parliamo del vocoder. Nel disco viene usato spesso, una ricerca di suono interessante e un uso altrettanto interessante, come mai hai scelto di usarlo?
Innanzitutto il vocoder non è l’autotune, il vocoder originale, quello che ho utilizzato io, per metterlo in funzione abbiamo dovuto smanettare un paio di giorni per ripulirlo; c’erano i circuiti che non andavano, il mio ingegnere del suono prima di tirare fuori il suono giusto ha dovuto lavorarci un po’ perché era fermo da oltre quindici anni. È uno strumento che funziona suonando una tastiera che modula naturalmente la tonica fatta con la voce sul microfono, creando un voicing. Ha anche un release abbastanza strano, quindi tu devi cantare quasi in anticipo per essere preciso sul tempo. Il suono mi sembrava l’ideale per il tema di “Sentieri arditi” con il sax di Max Ionata e anche per sottolineare armonicamente alcuni momenti con una voce con dei pattern ritmici. Essendo io nato negli anni Sessanta, sono cresciuto con la musica dei Weather Report, Joe Zawinul, Herbie Hancock, quindi con l’utilizzo del vocoder fatto da grandi strumentisti. Anche per “Genetica dell’amore” nella prima parte ho pensato che la parte armonica poteva essere realizzata completamente dal vocoder, così come tutto l’arrangiamento vocale di “La religione dell’universo” con i voicing di Daniela Spalletta: tutti i cambi armonici sono sulla melodia, una cosa molto complessa da realizzare.
Su radio 24 conduci un programma in cui dai suggerimenti su nuova musica. Quali sono le tue ultime due scoperte?
Una produzione inglese recente di un giovane batterista inglese, Moses Boyd, con l’album “Dark Matter”, vicino al concept de “Il mondo in testa” perché tira fuori cose etniche, anche se c’è molta elettronica, usata però in modo intelligente, con anche la partecipazione di belle voci, anche se in alcuni momenti stanca perché le stesure sono estese. Una cosa più classica, ma molto ben realizzata è di un artista nato in Congo, ma residente a Londra, Jordan McKampa con l’album “Foreigner”, un vero viaggio, perché scrive melodie bellissime, arrangiamenti efficaci e semplici alla vecchia maniera, old school, con una voce bella e calda, che quasi mi ricordano Marvin Gaye e Bill Withers, un soul venato di jazz e di spezie lontane.
Grazie mille a Gegè Telesforo per la disponibilità e la passione che trasmette.
Roberta Usardi