IL LIBRO DI GIOBBE ALL’ARENA DEL SOLE DI BOLOGNA
All’Arena del Sole di Bologna ha debuttato IL LIBRO DI GIOBBE, diretto dal bolognese Pietro Babina, scritto insieme al giovane Emanuele Aldrovandi e con la collaborazione poetica di Domenico Brancale.
Ispirato alle vicende bibliche, lo spettacolo traspone la storia di Giobbe ai tempi moderni.
Un partita di tennis: un giocatore vince, un giocatore perde. Saranno i tormenti del perdente il fil rouge della narrazione, in uno spazio spoglio dove sullo sfondo troviamo le immagini digitali di un campo da tennis – con la sua immobilità – poi il susseguirsi delle riprese di un interno e ancora scene macabre e frenetiche di un videogioco violento, inframmezzato da immagini che raccontano tragedie contemporanee (come l’attacco terroristico alle torri gemelle) e infine l’immensità senza fine della galassia osservata da un occhio computerizzato.
L’ambientazione è piuttosto buia, ci sono quasi solo parole e pochissima musica. E in questa essenzialità scenica troviamo un tentativo di intensità, di intimismo: la rappresentazione di un logorio interiore, disturbante, perché? Perché? Questa semplice domanda è il tormento del protagonista, tennista giunto all’apice della sua carriera, che ora sta precipitando vertiginosamente e non riesce ad accettare la sconfitta. Perché accadono le cose? Il caso? Nulla accade per caso… e allora perché?
La narrazione è lenta, i tempi si dilatano e lo spettatore si perde, il risultato non è esattamente centrato. La bravura degli attori – Leonardo Capuano, Alessandro Bay Rossi, Barbara Chichiarelli, Fabrizio Croci, Andrea Sorrentino, Giuliana Vigogna – rende la performance efficace, ma i tempi sono rallentati e le emozioni risultano così tragicamente patetiche da non essere reali, da non permettere immedesimazione, nonostante i dubbi del protagonista siano gli stessi dubbi che potrebbero celarsi nel cuore di ogni spettatore.
C’è originalità e c’è coraggio, sono evidenti queste due componenti. È difficile raccontare un interrogativo umano così antico, un tormento che, paradossalmente, rende lo spettacolo freddo – a tratti monotono – come testimoniato dagli applausi un po’ tiepidi della sala, ma – improvvisamente – verso la fine, l’ambientazione si anima e si trasforma.
Angelica Pizzolla