“Il lavatoio”, una riflessione sul perdono
Sophie Daull è attrice di teatro e scrittrice francese. A soli vent’anni, nel 1985, perde la madre, vittima di un omicidio. Dopo la morte improvvisa per malattia della figlia sedicenne, si avvicina alla letteratura. Nel suo primo romanzo, Camille, mon envolée (2015) ricostruisce la vicenda della figlia, mentre il secondo, La suture (2016), è dedicato alla madre. “Il lavatoio” (Voland, pp. 141 pagine, euro 15) è il suo terzo romanzo, con il quale ottiene il Premio dell’Unione Europea per la letteratura.
È una premessa doverosa per capire a fondo questo terzo romanzo, in cui autobiografia e finzione si fondono indissolubilmente. Un terzo romanzo che forse trova un punto di incontro tra i primi due, quello del perdono.
Due voci, una storia
“Derrida dice che il perdono si misura nella prova dell’impossibile, che è un’aporia. È un peccato che sia una parola tanto complicata, tanto respingente, tanto…greca!”
Un uomo, condannato all’ergastolo per omicidio, esce di prigione dopo diciotto anni per buona condotta. Ne conosciamo la nuova vita, abitudinaria, ritirata, con “l’amico microonde” e “l’amica televisione”. Sprazzi della sua vita in prigione, dell’amore che vi ha trovato e che ha potuto vivere da uomo libero una volta fuori. Le fortune e i privilegi, in prigione e non.
Una scrittrice che promuove il suo libro dedicato alla scomparsa prematura della figlia. E che, intanto, ne inizia a pensare un altro, incentrato invece sulla tragedia che l’ha colpita quando era lei ad essere una giovane figlia: la scomparsa violenta della madre, uccisa.
Due figure e due percorsi apparentemente distanti, anche sul piano temporale: cinque i giorni della vita dell’uomo raccontati, un anno della scrittrice. Due i font usati, due i registri: elevato e impermeato di neologismi quello della scrittrice; colloquiale, triviale, con riferimenti culturali lanciati a metà quello dell’uomo. Eppure ogni pagina è un passo di avvicinamento tra i due. Finché un giorno, mentre la scrittrice promuove il suo libro alla TV, l’uomo la sta guardando e ne resta sconvolto: è la figlia della donna che ha ucciso trent’anni prima, e che tra cinque giorni sarà nella città in lui cui vive e lavora per presentarlo.
Due voci, una stessa condanna
“Andrò quindi al lavatoio, dove la memoria si sfrega contro il granito rugoso, dove la lingua si risciacqua nel torrente che schiuma come un sapone di inchiostro, dove la finzione si fa candeggina. Guarderò l’acqua sudicia scorrere in una grande sinovia di parole e lascerò che gli schizzi si asciughino al sole della loro consolazione. Gran bucato.”
La scrittura come purificazione, come trasformazione del dolore. E la scrittura come pretesto di riflessione e pronunciare quelle due sillabe “scu-sa” dopo trent’anni. Le due voci del racconto sono accomunate dalla stessa condanna, quella a non poter dimenticare. Ma entrambe hanno anche la grande occasione di potersi in qualche modo, almeno in parte, purificare da quel che è stato.
“L’amore spezzato per una morte ingiusta non si risolve con un risarcimento in denaro o la prigione. Non c’è un’economia del perdono”.
La protagonista non vuole vivere secondo principi binari carnefice/vittima, colpevole/innocente, colpa/punizione. Non cerca guerre. Sopito il dolore feroce, cerca pace, perdono, ricordare in pace.
“Un’operazione del genere avrebbe su di me l’effetto di frapporsi tra i segnali che lei mi lancia e la purezza dello sforzo che faccio per decifrarli. Renderebbe opaco il tulle fragile e magnifico che intreccio giorno dopo giorno nel ricordo della nostra complicità. È l’unica cosa che resta, che perdura oltre la scomparsa”.
Vuole diffondere un altro passo, quello “di lato, il terzo tempo del valzer, quello che zoppica un po’.” E una volta che la protagonista ha raggiunto la sua meta, e fatto il “gran bucato”, l’assassino può uscire di scena e sparire, metaforicamente e non.
“Il tizio che ha ucciso mia madre vive da qualche parte nel globo; il quale si cancella a sua volta, di tsunami in maremoto, nel cestello della lavatrice. Laggiù, al grande lavatoio, la mia lingua si asciuga su pietre cocenti, la biancheria pulita è stesa al sole, le pagine bianche sbattono al vento”.
Laura Franchi