IL FIORE DEL MIO GENET allo Spazio Tertulliano di Milano
Come operare una sintesi di un autore che ha fatto della propria cifra stilistica la molteplicità, l’ambiguità della coscienza dove niente è mai quel che sembra? Impossibile, deve aver pensato la compagnia del Teatro delle Bamole quando si è accostata a Jean Genet.
L’omaggio che gli tributa, in scena allo Spazio Tertulliano di Milano, muove allora da questo assunto. Ne risulta un articolato e mai prevedibile puzzle di suggestioni giustapposte, dove Federico Gobbi e Domenico Piscopo si fanno mezzo di una riflessione poetica articolata e sorprendente: sono marinai, poeti, uccelli e assassini senza soluzione di continuità, in un’immersione in un mondo, quello di Genet, dove hanno cittadinanza tutti gli opposti. Nel solco dello studio sonoro che contraddistingue la compagnia c’è spazio per tutto il mondo dell’autore, poeta e drammaturgo francese: alla trivialità si accosta il lirismo, alla purezza la melma, alla ricerca sulla parola un uso insistito dei corpi come strumento scenico, ai confini del teatro danza.
Pretestuoso cercare un filo in una foresta di simboli, di evocazioni, che passano attraverso tutti i capisaldi del lavoro di Genet, dall’ambiguità di genere al farsi voce degli ultimi, dei marginali. Si può solo cercare l’eco della voce del poeta che se n’è andato, e lascia a chi rimane gli strumenti per immergersi in se stesso. In un teatro come quello contemporaneo, che nella ricerca ossessiva della novità finisce col ripetere schemi già visti, l’autentico disorientamento che questo lavoro offre, senza sponde e spiegazioni facili, allo spettatore, sembra dimostrare che il vero coraggio, la vera avanguardia, la suggerisce ancora chi ci ha preceduto.
Chiara Paduano