Il Don Pasquale di Gregoretti di nuovo al Teatro Regio di Torino
Dopo Roberto Bolle, al Teatro Regio di Torino riparte la stagione. Mentre tutti attendono trepidanti Muti, che a fine febbraio dirigerà Verdi in Un ballo in maschera, si trova il tempo per soffermarsi su un grande dell’opera comica: Gaetano Donizetti. Non più Bellini, non ancora Verdi. Va in scena Don Pasquale, opera matura e “dramma” buffo in tre atti su libretto del compositore e di Giovanni Ruffini, che non copiò da Metastasio (e che non volle i crediti, ma questa è un’altra storia). Il Regio ha recuperato l’allestimento del 1988, con la regia del grande Ugo Gregoretti e i costumi e le scene di Eugenio Guglielminetti (off topic: ad Asti, nelle cantine di Palazzo Alfieri, c’è una deliziosa raccolta dei modellini delle sue scenografie che val bene una visita). Il tutto viene oggi ripreso da Riccardino Massa, che, con Alessandro De Marchi alla conduzione dell’orchestra, ha garantito un adattamento fedele e celebrativo di un’opera che funziona dal 1843, quando ci fu la prima assoluta al Théâtre Italien di Parigi. E pensare che il maestro ha impiegato appena una decina di giorni per comporla. Comunque ci sono dei motivi se si tratta di uno dei culmini del repertorio buffo: primo fra tutti, l’alleggerimento degli intrecci e delle complicazioni tipici della commedia dell’arte, il quale consente di dedicarsi ai personaggi e ai sentimenti. Per rievocare la trama, si parta dalla morale: è scemo di cervello chi s’ammoglia in vecchia età. E già si capisce dove stiamo andando a parare: il protagonista vuole cacciare il nipote Ernesto, colpevole di essere ancora celibe, così il dottor Malatesta (come una Fata Madrina) s’inventa uno stratagemma per la felicità del giovane e della sua amata Norina, che coinvolge proprio quest’ultima. Don Pasquale crederà di sposare Sofronia, sorella del dottore, ma si tratta evidentemente di Norina, la quale dovrà farlo impazzire una volta firmate le carte. Don Pasquale si arrende e vivono tutti felici e contenti.
Sono passati quindici anni, eppure ci sono regie di ieri e di oggi che risultano più antiquate: la resa visiva dell’immaginario donizettiano risulta autorevole, inattaccabile, forse per certi versi semplice ma nel senso di fruibile e quindi mai banale. Certo, il palco è un po’ affollato: Roma è una cartolina ottocentesca sviluppata in profondità, scene e controscene; con le lavandaie e il fiume e una barca un po’ ingombrante, un terzo di facciata di una chiesa, schiere di servitori insieme impettiti e svagati, i girotondi dei bambini nelle piazzette, i palazzi del potere ancora più in là, e ancora le ringhiere, il ponticello, i capitelli agli angoli delle strade, finanche un aerostato. Però questo affollamento richiama l’espediente stesso: quando Norina muta da docile fanciullina a moglie esagitata, pretende dal protagonista una quantità di cose, dove appunto il tema è la quantità, la sola cosa che può spaventare un vecchio attaccato ai soldi: come spiega Federico Fornioni in un saggio per il libretto di sala, …tutto viene condensato (alla fine del secondo atto) nella sequela di ordini impartiti alla servitù, ove si impone un elenco di acquisti e di cambiamenti da apportare alla casa. A contare non è tanto il contenuto, bensì la q.: servi, carrozze, cavalli, mobili e poi parrucchiere, sarto, gioielliere e “mill’altre cose”.
Al pubblico arriva tutta la serietà della regia, attenta anche alle cose piccole (che poi si rivelano le più grandi – penso a certi gesti di Don Pasquale o alle movenze di Norina, che plasmano l’atmosfera perfetta). D’altronde Massa non è uno a caso, ma l’ultimo che conserva ancora la memoria storica della costruzione di questo spettacolo, avendo collaborato direttamente con Gregoretti e Guglielminetti, all’epoca. Lui comunque non nasconde di aver dovuto svecchiare soprattutto i tempi comici, poiché forse non ci pensiamo ma gli aspetti scenici, anche se sembrano immutabili, in realtà mutano con i gusti dei “consumatori” (leggi spettatori), come spiega lo stesso regista. Per esempio, peraltro, per quanto possa sembrare assiepato il palco viene calcato da 27 figuranti contro i 48 di trentacinque anni fa. E poi c’è la romanità – “Roma si vive soprattutto per strada”, diceva Gregoretti, un po’ di Mozart (Le nozze di Figaro, Don Giovanni…), e un vecchio strano: avaro e arrogante, pietoso tanto da risultare simpatico; gliene fanno di ogni e, si noti, lui la lezione la apprende al primo colpo.
Noi abbiamo assistito alla prima, giovedì 25 gennaio, e pertanto abbiamo avuto occasione di assistere all’inappuntabile esibizione di Nicola Alaimo: affabile nei modi, credibile già dal physique du rôle; divertente, balla con una signora della prima fila. Con lui sul palco, non per ordine di importanza, Maria Grazia Schiavo (Norina), Antonino Siragusa (Ernesto), Simone Del Savio (Dottor Malatesta). Le repliche si sono concluse il primo febbraio. Ora, come dicevamo in apertura, aspettiamo Un ballo in maschera. Ma anche La fanciulla del West dal 22 marzo e poi The Tender Land. In questi giorni, infine, è comparso in giro per la città un poster molto bello che anticipa qualcosa sulla prossima stagione: Manon Manon Manon. Per la prima volta in Italia, si legge, Tre opere, tre compositori, una protagonista unica.
Davide Maria Azzarello