“Il dio splendente. I Misteri romani di Mithra fra Oriente e Occidente” di Stefano Arcella
Mitra è una antichissima divinità indo-iranica. Presente sia nei Veda e nella letteratura vedica (i libri sacri degli Arii risalenti approssimativamente al 1300/1200 a.C) sia nell’Avesta iranico (prima stesura scritta VI a. C.) e quindi nella letteratura pahlavi (X d. C., ma riporta materiali molto più antichi), Mitra penetra nella Roma tardo-repubblicana e poi imperiale dopo la conclusione delle guerre mitridatiche. Non sappiamo quando il suo culto divenne misterico, ma la popolazione greco-romana dell’Impero lo conobbe come tale. Esso prevedeva infatti sette gradi di iniziazione (Corax, Corvo, Nymphus Sposo, Miles, Soldato. Leo, Leone, Perses, Persiano, Heliodromus, Colui che corre col Sole, Pater, Padre), ciascuno sotto la tutela di uno dei sette pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove, Luna, Sole, Saturno)
Il culto del dio si diffuse rapidamente a macchia d’olio seguendo la marcia delle legioni, che, anche grazie alla presenza del grado iniziatico del Miles, furono il suo volano principale. Della sua ampia diffusione testimonia la larghissima messe di reperti rinvenibili, da est a ovest e da nord a sud, in ogni angolo dell’Impero. Tale abbondanza di materiali, tuttavia, contrasta con la quasi totale assenza di documenti scritti, in grado di fare luce sul significato dei primi. Il risultato è che gli studiosi di Mitra si trovano nella stessa condizione di chi, volendo dedicarsi allo studio del cristianesimo, disponesse solo dell’Antico Testamento e delle cattedrali del Medioevo. Non a caso Franz Cumont, il primo grande studioso del mitraismo, era quasi costretto a utilizzare un testo molto antico, il Bundahišn iranico, per spiegare un culto che tuttavia nel passaggio da Oriente a Occidente aveva subito, inevitabilmente, profonde trasformazioni. Paradossalmente, la penuria di documenti scritti ha scatenato la fantasia degli studiosi, che a partire da Porfirio (III d. C.) si sono cimentati nell’elaborazione delle più disparate ipotesi interpretative, al punto che la produzione di volumi su Mitra e il mitraismo, specie negli ultimi tempi, risulta anche troppo abbondante. In questa gara si oppongono tra loro il partito orientalista e quello occidentalista. I primi, a partire da Cumont, spiegano il mitraismo sullo sfondo dell’antico dualismo iranico e della lotta fra luce e tenebre; i secondi spiegano il culto nel quadro ‘moderno’ dell’ideologia e della propaganda imperiale romana, che fonde insieme culto dell’Imperatore, culto di Mitra e culto del Sole.
Il libro di Stefano Arcella, “Il dio splendente. I Misteri romani di Mithra fra Oriente e Occidente” (Edizioni Arkeios – Mediterranee, Roma 2019, pp. 258, euro 24), invece, cerca di superare queste opposizioni, perché legge il mitraismo sullo sfondo del Pensiero Tradizionale, una ‘filosofia perenne’ incentrata sul recupero e il ricollocamento dell’Io più profondo nel seno del ‘numinoso’, la potenza insieme immanente e trascendente del Sacro. Arcella si riallaccia esplicitamente al lavoro di Julius Evola del 1926, La via della realizzazione di sé secondo i Misteri di Mitra. Evola dava un’interpretazione ‘eroica’ della vicenda di Mitra, culminante nell’uccisione del toro, la famosa e onnipresente tauroctonia. L’iniziazione mitriaca era la trascrizione in immagini e atti del progredire degli stati di coscienza fino a raggiungere la sintonia con la vita luminosa del Numen. Sviluppando le tesi di Evola, Arcella legge il culto di Mitra come un anello della ‘aurea catena’ che unisce le esperienze sapienziali sia dell’Oriente che dell’Occidente. Sotto gli occhi del lettore del Dio splendente scorre una lunga galleria di personaggi e di teosofie, che vanno da Orfeo a Platone, da Ahura Mazda e Zarathustra a Porfirio e al neoplatonismo, da Giuliano Imperatore ai culti solari, e così via. Inserito in questa tradizione, suggerisce Arcella, il mitraismo può essere ancora fruibile dall’uomo moderno, perché veicola il messaggio che le forze telluriche della materia, che sembrano dominarci e che costituiscono la base della tecnica planetaria, non hanno consistenza propria, ma sono la ‘solidificazione’ di un non-pensiero, quello dell’uomo che ha perso i contatti col Sacro.
Luciano Albanese