Il coraggio di non avere paura: intervista alla compagnia Berardi – Casolari
Il palco del Teatro Litta di Milano ha accolto con calore l’arrivo della compagnia Berardi-Casolari, che ha portato in scena, dal 22 al 27 ottobre, “In fondo agli occhi” con la regia César Brie. Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari, nel loro stile drammaturgico e teatrale unico e riconoscibile, lasciano sempre il segno ovunque vanno, la loro comunicazione è diretta e senza fronzoli e arriva al pubblico come un fiume in piena. Li abbiamo incontrati poco prima del debutto per approfondire il tema dello spettacolo, e non solo.
“In fondo agli occhi” è stato diretto da César Brie, che quest’anno compie i 50 anni di carriera. Il testo risale al 2013, è stato scritto insieme a lui? In quell’anno è nata la vostra collaborazione?
Gianfranco: Io e Gabriella abbiamo scritto il testo, César ha fatto solo la regia, ma ci ha messo comunque le mani perché desidera avere libertà d’azione, però tutto quello che sembra di César in realtà l’abbiamo fatto noi, e quello che sembra fatto da noi in realtà è opera sua. Ci sono parti di un’irriverenza e un’impudicizia che la gente pensava fosse stata una nostra idea, ma in realtà fu di César. Ci siamo molto divertiti in questo. Ci sono anche delle scene poetiche che la gente ha attribuito a César, ma in realtà non è così. Lui aveva visto “Io provo a volare” e gli era piaciuto tantissimo, lo definì un piccolo capolavoro. Ricordo che, in un periodo in cui era appena tornato dalla Bolivia, lo aiutammo facendogli da assistenti per lo spettacolo “Albero senza ombra”. Era il 2008/2009. Io mi iscrissi a vari laboratori per cercare dei materiali, e a un certo punto venne chiesto a me e Gabriella di farne a Napoli e a Lamezia, ma io proposi invece di chiamare César. Imparai di più durante quella settimana di laboratorio a Napoli che in anni di laboratori fatti a destra e a manca: i princìpi del fare teatro, le tecniche, gli esercizi. A 22 anni ho fatto il mio primo spettacolo, e dedussi dalla scena i princìpi del teatro, andavo di istinto; ho capito dopo il senso degli esercizi di César. Fu a Napoli che lo invitammo a vedere “Io provo a volare”. Gli chiedemmo di fare qualcosa insieme e gli facemmo sentire degli spunti di “In fondo agli occhi”, che lui trovò bellissimi. Ci mandò poi un messaggio mentre eravamo in scena a Roma con scritto “se aspettate i miei tempi, vi faccio la regia”. Noi eravamo felicissimi, per noi era un mito e poteva essere una grande occasione. In ogni spettacolo in cui sia io sia Gabriella siamo in scena, César diventa il nostro primo spettatore, e continua a essere una possibilità formativa per noi. È un maestro, ci ha infuso molta autostima e molto coraggio, sa già come può diventare uno spettacolo, vede l’alba prima degli altri. Ci ha insegnato un “atteggiamento artistico”, un lavoro quotidiano, costante e concreto, un codice comportamentale di rapporto con la scena, con gli altri e fuori dalla scena.
Il tema della vista è ricorrente nei vostri spettacoli, e personalmente mi trasmette molta forza, perché da questa “mancanza” emerge un mondo. Vorrei capire meglio come è stata concepita questa storia.
Gianfranco: Questo filone autobiografico, per noi inesplorato, è nato grazie a César, per questo lo reputo un mito. Io sono Tiresia, l’avventore di un bar, innamorato della barista, Italia. Entrambi si trovano nel Bar Italia, in cui non entra più nessuno: c’è la crisi economica, e il fallimento economico diventa anche fallimento emotivo. César ci ha aiutato a individuare due princìpi per il nostro lavoro: l’autobiografico e l’universale, ovvero rendere universali le nostre storie personali. E poi trasformare la tragedia in sorriso, in leggerezza. Io e Gabriella avevamo fatto una ricerca durante il tour di “Io provo a volare” nei centri di provincia e abbiamo notato che c’era sempre il Bar Italia in quei posti, così abbiamo pensato di raccontare la storia dell’Italia attraverso di essi. A César i testi piacquero tantissimo, erano sognanti e pieni di amarezza, rabbia, di un paese che crolla ma non reagisce, di un popolo che soffre, ma che per paura non urla. César ci ha chiesto di raccontare l’equilibrio tra di noi, tra me e Gabriella: sembra che lei non faccia nulla, invece c’è un notevole lavoro dietro, nella quotidianità. Abbiamo usato poi la mia cecità per raccontare la cecità del Paese, che è ancora presente oggi.
Gabriella: Ci siamo accorti che il testo è più aggiornato adesso di quando l’abbiamo scritto.
Come vi sentite adesso in scena con questo testo rispetto al 2013? E come vi siete evoluti voi rispetto ad allora, anche dopo tutte le riprese successive?
Gabriella: Mi sembra di aver superato delle cose, adesso sono molto più sicura; ho preso una piccola distanza e mi diverto anche di più nell’interpretazione. Ora Italia mi è diventata molto simpatica, mi fa ridere e mi diverto molto a giocare con lei.
Gianfranco: All’inizio mi ha dato tanto coraggio e tanta libertà, e ho notato come l’ipocrisia sia ancora tanto forte, soprattutto nella classe intellettuale. Adesso sono meno arrabbiato e mi diverto di più. Ma non so se è meglio. (ride)
A livello di spettatori, che messaggio vorreste che arrivasse al pubblico?
Gabriella: Ho la sensazione che oggi, rispetto alla generazione precedente, i ragazzi siano molto obbedienti, quando sarebbe meglio disobbedire e confrontarsi di più. Col fatto che sia tutto comodo, non ci si interroga più. Quando si pativa di più c’era più voglia di ribellarsi. Vorrei che i giovani imparassero a disobbedire, non a trasgredire. Oggi si può fare tutto, è tutto a portata di mano, ma è lì che vogliono farci andare.
Dove andrete dopo Milano?
Gabriella: Nella bellissima Puglia.
Gianfranco: Il 4 novembre faremo la conferenza spettacolo in carcere a Brindisi, poi delle repliche di “I figli della frettolosa” in quattro province diverse, e andremo anche a Crispiano, il mio paese, per un progetto welfare. La cosa bella è il laboratorio che parte una settimana prima della messa in scena, e in Puglia c’è sempre qualcuno che prende la sua strada “anarchica”. Bisogna allenarsi molto e meditare molto. Poi ci sarà un’altra data di “Io provo a volare”.
State lavorando a nuove cose?
Gianfranco: Sì, involontariamente sogniamo cose nuove. Abbiamo un paio di idee.
Ultima domanda: cosa c’è “in fondo agli occhi” per voi adesso? E cosa vorreste che ci fosse, se foste voi a vedere lo spettacolo?
Gabriella: Se fossi in platea penserei che nonostante tutto il tribolio di questa vita, di questo Paese, il sentimento dell’amore e dell’accudire vince ancora. Nel finale, lo spettacolo fa emergere l’amore di queste due persone, che viene coltivato nel modo in cui si muovono, non dalle parole.
Gianfranco: La cecità e la cura sono altre cose che ci ha fatto notare César. Adesso i fragili sono diventati dei supereroi, non c’è più il pietismo del disabile, ma la retorica del superabile, che è molto peggio da superare. Fra un po’ ci saranno dei corsi di guida o di fotografia per ciechi. Tutti devono imparare a fare tutto, ma questo non può essere il mondo del “fare tutto”. Per me in fondo agli occhi c’è molta paura, ma si deve avere il coraggio di non aver paura: dentro la paura non ci sono tigri da affrontare, ma la vita da vivere. Non si deve evitare di vivere per paura di morire.
La chiacchierata è finita, ma è stato un bellissimo scambio con tanti spunti di riflessione. Quando ho visto lo spettacolo, il giorno dopo, ho capito tantissime cose e ho avuto modo di riflettere in modo approfondito sulle tematiche affrontate (qui la recensione). Questa è la magia del teatro: lo scambio, la rappresentazione, la verità attraverso la finzione.
Nell’attesa di incontrare di nuovo Gianfranco e Gabriella, vi invitiamo ad andare a vederli se faranno tappa nella vostra città. Ne vale davvero la pena.
Roberta Usardi
Fotografia di Tommaso Le Pera