Il convitto: l’orrore della guerra per prendere coscienza di sé
“Il convitto” (Voland, Collana Sírin, pp. 316 pagine, euro 17) si può considerare come il capitolo finale di un’ideale trilogia di Serhij Žadan insieme a “La strada del Donbas” e “Mesopotania”. Lo scrittore ucraino, nato nella regione orientale di Luhans’k, ci racconta una storia che di fantasioso ha ben poco, una storia che lui stesso conosce fin troppo bene: i fatti bellici dell’inverno del 2015 che portarono dalle manifestazioni del Majdan all’occupazione russa della Crimea, fino alla formazione di due repubbliche separatiste e alla mobilitazione dell’esercito ucraino per difendere un confine violato.
Questo è lo scenario in cui incontriamo Paša, insegnante che condivide la casa con il padre e la sorella. Paša, l’indolente che non prende posizione. Paša, che vive tra le sue quattro mura e non riesce a trattenere nemmeno la donna che ama. Paša, che non ama il suo lavoro, né i suoi studenti e non è amato da loro. Paša, che non sa imporre le proprie scelte in famiglia o più semplicemente non ne fa, non fino in fondo. Eppure a un certo punto scatta qualcosa, forse solo senso di dovere all’inizio, che lo spinge a intraprendere un viaggio di tre giorni per recuperare il nipote tredicenne Saša che vive in convitto, per volere della madre, che non sa gestirne le crisi epilettiche né l’età problematica. Quello che Paša farà, prima da solo e poi in compagnia di Saša per andare e tornare dal convitto, sarà un viaggio nel viaggio. I pericoli, le incertezze e la paura dell’attraversare un territorio in cui imperversa un conflitto tanto oscuro quanto violento, prima. E poi, un percorso di crescita individuale: messo letteralmente di fronte agli orrori della guerra, Paša capisce che è giunto il tempo di trovare il proprio posto nel mondo e palesarlo agli altri, tempo di mostrare la propria volontà, e imporla se necessario. E con lui cresce anche Saša che si sente finalmente accettato.
“Sbirciare nella quotidianità altrui è come sfogliare un giornaletto pornografico non tuo: non sai mai dove faresti meglio a non guardare. Qui una vita intera è stata rivoltata come tasche. Come nel convitto: non puoi nascondere nulla, tutto è in bella vista, dalla carta da parati ai cuscini. A centinaia calpestano la tua vita senza lasciare traccia. Bruciano i mobili di altri senza sapere chi vive nelle loro case in quello stesso momento, magari alimentando la stufa con la loro biblioteca”.
Una guerra vicina a noi, nel tempo, siamo appunto nel 2015, e nello spazio, siamo in Ucraina. Eppure sembra quasi non sia esistita, quando in realtà è ancora in corso. Una guerra complessa, in cui per provare a sopravvivere tocca districarsi, schierarsi tra i “nostri” e i “vostri”, quando capire chi siano gli uni e gli altri è difficile, sia per chi la guerra la combatte sia per chi la subisce. La guerra è orrore puro. Ce lo vuol far capire bene l’autore che l’ha vissuta sulla sua pelle: un soldato che troppo giovane muore dissanguato tra le braccia di Paša. Il cellulare di uno sminatore ormai finito sotto terra che continua a squillare ogni mattina alle otto, chissà magari il figlio o la figlia che lo chiamano prima di andare a scuola. L’intimità violata. La sicurezza, anche del proprio tetto, irrimediabilmente scalfita. La fame, il freddo, i boati, l’impossibilità di dormire, mangiare, scaldarsi. Eccola la guerra, li chiamano giochi di potere, ma è solo morte di molti a vantaggio di pochi.
Ci sono pagine bellissime sull’importanza di capire la propria identità, di non essere indolenti e non aver paura di vedere cosa ci sia oltre la protezione del proprio cortile. È così che si crea una coscienza comunitaria, così che si riesce a restare umani in mezzo alle barbarie, oltre le bandiere, e a mettere le basi per un futuro che non sarà mai perfetto, ma almeno ci sarà.
Laura Franchi