“IL CANTO DELLA CADUTA” AL TEATRO GOBETTI DI TORINO
Ora la clessidra che contiene la misura di tutte le cose tace: anche le montagne, come sassolini in un grande calcolo, segnano un tempo apparentemente spento. Esiliate nella favola o nell’utopia, le antiche parole e regole germogliano ai confini della memoria.
“Nei cunicoli che solo le marmotte conoscono, abitano gli ultimi superstiti del nostro popolo: immersi nell’ombra e nella solitudine attendono (…) Non ci saranno più guerre, né uccisioni, né rancori, e come già in un lontanissimo passato gli uomini saranno fratelli.”1
Quattro grandi corvi tengono d’occhio il
campo di battaglia, da sopra, da prima: di tutto ciò che accade, possono fare
banchetto. Parlano con tono ruvido, forse non hanno mai goduto di un pasto così
abbondante. Testimoni simbolici del principio e della fine, il loro sguardo,
aguzzo quanto il becco, si spinge ben al di là della tradizione popolare: fruga
nella gola, nell’orrido di indifferenza dove l’urlo delle vite altrui precipita
(ancora oggi). Prova ne sono i due bambini nascosti nel ventre buio della
montagna, per i quali “sarebbe stato meglio nascere topi, perché ai topi i
cecchini non sparano.” Nel delicato, spaventato sussurro – Marta Cuscunà sa dare a ogni creatura
sulla scena un’impronta unica e sorprendente, sia nella voce sia nei movimenti
– c’è l’antidoto alla paura, mentre il massacro rimbomba oltre le loro teste:
il racconto di una età di pace e di aiuto reciproco, scandita da donne regine
nelle cui mani il potere era responsabilità anziché dominio.
Al centro, affidata a un ermetico (meno efficace di quanto potrebbe) labirinto
verbale che si dispiega su uno schermo, la storia di Dolasilla e del Re. Figura
cardine del ciclo epico, la giovane principessa incarna il richiamo dell’antico
potere femminile in un mondo rovesciato ad uso e consumo di uomini prepotenti
come suo padre. Uccidere o essere uccisi, tradire o venir traditi, in un
groviglio di popoli trascinati dall’astio al punto di non ritorno. Guerriera
per destino, Dolasilla porta in sé un tormento che non ha parola. Dalle
palpebre sprigionano immagini, armi forgiate dalla magia, profezie di morte,
promesse d’amore, in un certo senso “tante cose insieme, ma non una che si
scordi quel tuo trascinare per immense giornate notte e sangue”.2
Raccogliere, portare all’orecchio interiore, sentire l’eco di un presente remoto: così Marta Cuscunà mette in movimento l’intero meccanismo. “Il canto della caduta”, rielaborazione libera e magmatica del mito ladino di Fanes, immerge lo spettatore in un habitat visivo e acustico ferocemente non didascalico; creato insieme a Paola Villani (progettazione e realizzazione animatronica), Marco Rogante (assistente alla regia), Andrea Pizzalis (video), Claudio Parrino (lighting design) e Francesca Della Monica (partitura vocale), lo spettacolo lega in modo singolare drammaturgia e tecnologia, socchiudendo dalla penombra una serie di porte rimaste per lungo tempo alle nostre spalle.
Pier Paolo Chini
1 “Leggende delle Dolomiti. Il Regno dei Fanes”, Karl Felix Wolff.
2 Da una poesia in “Serie ospedaliera”, Amelia Rosselli.