I “Miracoli Metropolitani” della Carrozzeria Orfeo al Teatro Vascello di Roma
Quasi due ore e mezza di spettacolo. Di ritmo. Ogni gesto e ogni battuta sono uno scatto, un tumulto, una riflessione. Vita. Quella reale che ci cade addosso, mascherata dai sorrisi e dai social che oramai ci vedono incollati alla finzione. Perché la vita vera è fatica, dolore, depressione, malattia e insicurezza. Ma è anche la nascita di un bambino, la fuga verso il nuovo, la ricerca di una pace negata.
Sono i “Miracoli Metropolitani” che Carrozzeria Orfeo porta sul palcoscenico del Teatro Vascello di Roma fino a domenica 23 gennaio, con la drammaturgia di Gabriele Di Luca e la regia di Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi. Miracoli ad affrontare, spiegare, snocciolare le tematiche che affliggono la società, di cui la società stessa si fa portavoce, fino ad estenderle e a inocularle in vortici sfrenati che rendono le azioni a esse correlate a volte distruttive e altre salvifiche. Dinamiche conosciute e a cui ci si abitua con una facilità che va a rendere dei luoghi comuni tragici così naturali che impariamo quasi a conviverci, riversandoli in una normalità anomala, ma che oramai rappresenta interamente la vita reale. Dinamiche che su questo palcoscenico hanno luogo all’interno di una vecchia carrozzeria dove si svolge un’attività take away per chi ha intolleranze alimentari (quindi ormai la maggior parte della gente), in cui la prima cosa che si perde è la qualità di ciò che ingurgitiamo e che, seppur consapevoli, continuiamo a ingerire.
Ne sa qualcosa Plinio (Federico Vanni) che, da chef stellato, si ritrova ora a cucinare “merda precotta”, accompagnato da sua moglie Clara (Beatrice Schiros) che, da lavapiatti, è diventata una prorompente social media manager, sempre al passo con i suoi amati follower. C’è poi Hope (Ambra Chiarello), l’aiuto cuoco che arriva direttamente dall’Etiopia che difende le sue origini a colpi di coltelli, Igor (Federico Gatti), figlio di Clara ma non di Plinio, il cui cervello è devastato dai videogiochi e la cui vita sembra evolversi nella miseria della vacuità. Adrenalinico e pieno di sé e di aspettative è Mosquito (Aleph Viola), un carcerato che svolge i suoi lavoretti in semi libertà e che continua a fare provini per diventare un giorno un attore famoso, accompagnato nelle consegne da Mohamed, di cui sentiamo solo la voce e vediamo piccole e aggressive movenze. Si introducono in questo teatrino precostituito altri due personaggi esterni: Cesare (Massimiliano Setti), un aspirante suicida e Patty, la madre di Plinio, l’ex brigatista e convinta femminista, che porta avanti con determinazione le sue idee.
Le loro storie si sviluppano in una città oramai intossicata, dove le fogne stanno straripando ininterrottamente e in cui la popolazione ha smesso di riconoscersi, ritrovandosi sempre più chiusa, asociale e persa nella solitudine. È qualcosa che riconosciamo, che abbiamo vissuto e con cui ancora ci stiamo scontrando con le persistenti conseguenze. Una situazione – durante e dopo la quale – ogni vita troverà la soluzione che più ad essa appartiene per sopravvivere, vivere o perché no anche morire.
Marianna Zito
Foto di Laila Pozzo