I mille colori della street art napoletana
La street art, quella particolare forma di espressione artistica che si manifesta esclusivamente nei luoghi pubblici spesso senza alcuna autorizzazione, utilizzando tecniche più disparate quali bombolette spray, stencil, colori acrilici e pennelli, è divenuta con gli anni una delle attrattive di Napoli. Molti artisti danno sfogo al proprio istinto cimentandosi in questa meravigliosa ed affascinante arte di strada che ha reso Napoli “diversa” nel corso del tempo. Quando guardi la Città perdendoti tra le sue strade, la libera espressione dà il meglio di sé. Poca volgarità, nessuna forma e tanta sostanza, oltre ad una notevole onestà intellettuale spingono artisti più o meno famosi ad alzare la voce contro il razzismo, il capitalismo, le disuguaglianze o la politica, prendendo di mira strade, piazze, saracinesche, muri o grossi edifici fatiscenti. La street art è per altri invece, semplicemente una forma di espressione libera. Senza alcun filtro si esterna in maniera autonoma e spontanea la propria capacità artistica realizzando dei veri e propri “quadri moderni” nelle zone più disparate della Città; non più dunque tela e cavalletto, ma immensi e infiniti spazi urbani come ambienti di lavoro. Si realizza in questo modo una connessione lineare e libera tra l’artista e la giungla urbana, senza alcun limite o costrizione, grazie alla creatività e al talento degli artisti.
Questo fenomeno culturale di grande rilevanza sociale è visibile un po’ ovunque.
Dalle viuzze del centro storico alle aree portuali, dalle sperdute e degradate periferie ai quartieri più noti. In Piazza Gerolomini ad esempio in pieno centro storico di Napoli, esiste l’unica opera italiana di Banksy, la “Madonna con la pistola“. debitamente custodita dalla Pizzeria dal Presidente e dal mitico Agostino ‘o pazze ma, a differenza di altre metropoli in cui le opere di Banksy assorbono ogni eco mediatico, a Napoli il protagonista assoluto della street art si chiama Ciro Cerullo. Conosciuto ai più come Jorit Agoch, o più semplicemente Jorit, hanno scritto su di lui le più importanti testate giornalistiche del mondo. Jorit è stato riconosciuto dai principali critici internazionali e la sua attività artistica è divenuta materia di studi e trattati universitari. Coniugando un profondo realismo con una grande padronanza del mezzo pittorico, Jorit ha riempito Napoli di capolavori con forti messaggi di natura sociale. I volti diventano il suo soggetto principale, perché “lasciarsi guardare in viso, negli occhi, è offrire sé stessi” come dice lui. “Nel volto è rappresentato tutto ciò che siamo”. È in Africa che Jorit scopre il rito della scarificazione, un rituale di alcune tribù in Tanzania e Kenya in cui il volto delle persone viene segnato per rappresentare l’ingresso nell’età adulta e come simbolo di accettazione e fratellanza.
Ogni tribù ha un taglio o un segno diverso che la contraddistingue. Jorit ha scelto il suo e, affascinato da questo concetto, ha iniziato a segnare i suoi volti, perché ognuno appartiene alla Human Tribe. “Siamo tutti esseri umani e apparteniamo ad un’unica grande tribù, indipendentemente da chi siamo e da come siamo fatti”. Ecco così che ci vuole un attimo per identificare le opere dell’artista partenopeo: due strisce rosse sul volto dei suoi protagonisti. “Gennaro” è una sua opera di street art che rappresenta l’immagine moderna di San Gennaro con lo sguardo assorto verso l’alto. Il murale di “Gennaro” ha a un’altezza di 15 metri e dal 2015 occupa la facciata di un edificio nel quartiere di Forcella a Napoli ed è, insieme al “Maradona” dei Quarieri Spagnoli, il murale più fotografato della Città, per la sua collocazione centrale a portata di turisti. Ma come sempre accade nei viaggi, il meglio ed il peggio di un luogo lo trovi solo fuori dalla massa, lontano dai centri catalizzatori delle metropoli, fuori dal mondo. L’unicità di Napoli è anche laggiù, in quel nulla desolante e sporco. Ed a Napoli per andare nel nulla basta spostarsi di qualche chilometro nelle sperdute e fatiscenti periferie che non molto hanno da invidiare ai ghetti più desolanti di Bogotà o ai campi profughi di Beirut. Era il mese di febbraio del 2017 quando Jorit Agoch, un piccolo omino su una grande impalcatura, armato di colori e sentimenti, diede inizio ad un’opera destinata a fare storia.
Gli occhi dei passanti, rivolti all’insù, seguirono l’impresa, tratto dopo tratto, restando incantati quando apparve chiaro chi fosse il protagonista di quel capolavoro: il volto del “Pibe de Oro” copriva l’intera facciata laterale del primo di due edifici di Taverna del Ferro, a San Giovanni a Teduccio. Il grigio del cemento coperto da mille colori, donò al quartiere il più grande murales al mondo di Diego Armando Maradona. Un’opera autofinanziata e regalo di Jorit ai napoletani, completata grazie ai fondi avuti dall’allora capitano del Napoli Marek Hamsik e da alcune delle numerose associazioni che operano sul territorio. Oggi sul palazzo che fiancheggia quello dove c’è il dipinto di “Maradona“, nel cuore del “Bronx”, c’è il dolce volto di Niccolò, ragazzo autistico, con sotto la scritta “Essere umani“. Sotto il ritratto di Maradona invece c’è scritto “Dios umano“.
Due opere straordinarie e prepotenti, colorate e maestose che mettono sullo stesso piano differenti esseri fragili, siano essi divini o umani. L’anno successivo, nel 2018, in una maratona durata 40 giorni, su una superficie di 700 metri quadri, nella parte opposta dello stesso complesso di case popolari, un enorme casermone di dieci piani, il volto di Ernesto Guevara è affiorato sui lati dei due palazzi ed è tuttora considerato la più grande opera di street art del mondo raffigurante il “Che“. Capolavori assoluti, che si ergono sotto un cielo azzurro, in aree tristemente famose esclusivamente per fatti di cronaca, tra cumuli di rifiuti e motorini abbandonati, dove il rumore incessante dei clacson rappresenta un inno alla disperazione di una Città troppo assurda per essere vera.
Aree un tempo invisibili sono divenute luoghi di culto che incuriosiscono e affascinano. Pasolini, Hamsik, Ilaria Cucchi, Martin Luther King, Che Guevara, Maradona, Rosa Parks, la Sibilla Cumana, la Zingarella, San Gennaro, Angela Davis, Troisi, Nino D’Angelo, Ael e tanti altri capolavori unici e spettacolari riecheggiano in tutta la Città e donano colore ad edifici inguardabili in quartieri abbandonati a sé stessi, dove fa proseliti solo la criminalità organizzata. Ma Napoli non è solo Jorit. Tantissimi sono gli artisti che si cimentano quotidianamente in opere di street art, cambiando velocemente il volto della Città. Un’area metropolitana che come la sua gente è libera di piacere o di essere schifata, unica al mondo per le sue contraddizioni e la sua volgarità, uno spazio stretto in cui milioni di persone vivono gomito a gomito e che in certi punti raggiungono una densità di popolazione cinque volte superiore a quella di Gaza. Ci sono zone a Napoli che ricordano città reduci da un conflitto recente in cui i palazzi cadono a pezzi e l’immondizia è ovunque, dove le auto che sembrano distrutte dai bombardamenti si reggono a malapena in piedi, ed a fatica, come gli abitanti di questa “Babele” deforme e pericolante, stentano ad arrivare al giorno dopo.
L’itinerario dei murales dopo San Giovanni a Teduccio ci vede a Barra. Qui cinque grandi opere sui muri del palazzi del Rione Cavour lo trasformano nel Rione dei Sogni. Un grande lavoro realizzato da Jorit insieme ad altri quattro bravi street artist per sensibilizzare l’opinione pubblica su temi importanti quali il razzismo e l’inclusione sociale.
Il primo dei cinque murales è un’opera dedicata a Salvador Allende, il presidente del Cile morto l’11 settembre 1973 durante un colpo di Stato militare. L’opera è stata divisa in tre parti: al centro c’è il volto di Salvador Allende disegnato da Jorit, mentre la parte superiore e quella inferiore sono di Momo Gonzalez e rappresentano un omaggio a tutti coloro che sono morti o scomparsi durante la dittatura militare cilena. Il secondo murale si chiama “Lo sguardo di un bambino che guarda da una toppa” dove il viso del bambino è di Jorit, la kefiah in cui è avvolto è del peruviano Calaveras_art e la parte bassa è del napoletano Tukios e rappresenta la lotta per il diritto di tornare a casa del popolo palestinese.
Il murales sul terzo palazzo fu il primo ad essere realizzato, è sempre di Jorit Agoch e raffigura Martin Luther King. con il suo grande messaggio “I have a dream”. Straordinario il quarto murale, l’ultimo dei cinque realizzati denominato “Sogni” ancora di Jorit, che rappresenta tre bambini che dormono e sognano nello stesso letto. Molto bello anche il murales realizzato sull’intera facciata del quinto palazzo dall’artista cileno Inti, denominato “Polvere di stelle”, che chiude la serie di opere con un invito a guardare avanti senza pregiudizi. Da San Giovanni a Teduccio passando per Barra, fino a Ponticelli, accompagnati da una distesa infinita di degrado, abbandono e incuria, immondizia a livelli inimmaginabili, dove regnano disordine e miseria, luoghi dimenticati, lontani ed inascoltati. Ed a Ponticelli, laddove il Parco Merola ribattezzato Parco dei Murales è per molti sinonimo di riscatto sociale e culturale faccio veramente fatica a trovare segni di quel riscatto se non nell’abbellimento estetico di quei palazzi cadenti che a tratti ricordano Sarajevo nel dopoguerra.
Qui siamo nella zona orientale di Napoli, nel quartiere più giovane per demografia tra i dieci della conurbazione partenopea e con il più alto tasso di dispersione scolastica e disoccupazione. Davanti al nuovo campo di calcetto il murales “Chi è vuluto bene, nun s’o scorda” di Rosk&Loste, raffigura un pallone sospeso a mezz’aria tra i due protagonisti che indossano la maglia azzurra del Napoli e quella a strisce biancocelesti dell’Argentina, colori che richiamano Maradona perché, come in uno specchio riflesso, “Chi ama non dimentica”. Ed è proprio qui che un folto gruppo di scugnizzi ci accoglie con calore e gioia. Increduli e con stupore ci invitano a fare una partitella ed è una gioia immensa poter tornare a calciare un pallone in un ghetto. Perché un pallone rotola senza distinzione di ceto e condizione sociale, sul pallone si lotta, al pallone si danno i calci con forza e maestria, il pallone si tiene sottobraccio. Una partita vera, appassionata, carica di sudore, scontri duri e sorrisi vinta dai padroni di casa per sei a quattro. “Sarebbe bello che venissero più spesso persone come voi (io e i miei figli) da queste parti… invece chi viene fa una foto e scappa… hanno paura anche a scambiare due parole con noi!” ci racconta Ciro, tredicenne di Ponticelli. Ci perdiamo ripetutamente tra le immense arterie di Ponticelli per cercare le opere del quartiere fino a scovarle una per una. “Ael. Tutt’egual song’e criature” di Jorit, “‘A pazziella ’n man’ ‘e criature” di ZED1, “Lu trattenemiento de’ peccerille” di Mattia Campo Dall’Orto, “‘A Mamm’ ‘e Tutt’ ‘e Mamm’” di La Fille Bertha, “Je sto vicino a te” di Daniele Hope Nitti, “‘O sciore cchiù felice” di Fabio Petani, “Cura ‘ paure” di Zeus40.
Nel girovagare a caccia di murales non poteva certo mancare Scampia, il set a cielo aperto di “Gomorra“, dove di vele ne restano solo due, ormai prossime alla demolizione. Quasi a voler cancellare l’onta e la vergogna di ciò che è stato fino a pochi anni fa della più grande piazza di spaccio d’Europa, a cielo aperto, nel bel mezzo dei suoi oltre 50.000 abitanti. Nonostante le vele, oggi Scampia è anche riqualificazione urbana, spazi verdi, associazionismo, coraggio e campi da calcio. Il quartiere ospita un campo sportivo dedicato ed intitolato ad Antonio Landieri, vittima innocente di camorra a 24 anni durante la prima faida di Scampia del 2004 ed ospita 1.500 seggiolini provenienti dallo Stadio San Paolo. Interamente in sintetico, lo stadio è un museo a cielo aperto. Tutto il muro perimetrale è ricoperto di murales. Il più bello di tutti ancora una volta, è dedicato a “D10S“. Oggi a Napoli, quando si dice street art, si sente parlare solo e sempre di riqualificazione urbana, di riscatto sociale, di inclusione e creatività. Nella realtà invece sembra quasi che quei colori e quelle bombolette spray vogliano cancellare il dolore e la vergogna di una Città che nella sua indecenza sembra costantemente in rivolta, dimenticata da tutti e osannata da politicanti che fingono di non sapere cosa c’è oltre le poche sfavillanti vie del centro Città. Perché se Napoli è parte integrante di una Nazione che vuol dirsi civile, che vuole ergersi ad esempio di civiltà, a modello di vita nel Mediterraneo e nel mondo intero, è finito il tempo di chiudere gli occhi davanti a tale abbandono e degrado, ovunque intollerabile e inaccettabile.
A Napoli si vive male, peggio che in tutte le grandi città italiane. Qualche tempo fa lo scrittore napoletano Erri De Luca si scagliò contro le graduatorie sulla vivibilità: “Nelle prossime statistiche eliminate Napoli, è troppo fuori scala, esagerata, per poterla misurare” Credo sia vero, non c’è posto per Napoli in quelle graduatorie. È una città fuori competizione, squalificata, sempre in falsa partenza, completamente da ripensare, magari traendo ispirazione dal profumo dei croissant caldi e delle sue conseguenze sulla bontà umana. Si è cavalcata l’emergenza monnezza per accaparrare voti (Luigi De Magistris docet). Il prossimo sindaco, chiunque esso sia, troverà una Città a pezzi e un Municipio oberato da un debito fallimentare, dove la criminalità la fa da padrona, la densità abitativa fa spavento, la disoccupazione cresce a dismisura, la monnezza è diventata ormai un arredo urbano a corredo delle principali attrazioni cittadine e un indegno corollario del palcoscenico partenopeo. Per chi abita a Napoli, “l’imago urbis” contemporanea rimanda a una metropoli transennata, pericolante, inaccessibile e sudicia, dove è faticoso vivere sia per il borghese che per il proletario, con servizi pubblici scadenti, un traffico ed un disordine senza eguali. Ecco, in tutto questo, il colore dei murales rappresenta il volto nuovo della Città, bellissima se la guardi dalla cintola in su, volgare ed inaccettabile se abbassi lo sguardo, con un panorama idilliaco se la fotografi dall’alto, impresentabile se la osservi dal basso.
Seduto in mezzo al traffico / ho visto un angelo vero / volava sopra il Vomero e
il cielo era sereno / da S. Martino vedi tutta quanta la città
col mondo in tasca e senza dirsi una parola / io ti ricordo ancora
seduto in mezzo al panico / nasconde una pistola
Gennaro è in fondo al vicolo / vive con un nodo in gola
città che non mantiene mai le sue promesse / città fatta di inciuci e di fotografia
di Maradona e di Sofia / Ma è la mia città / tra l’inferno e il cielo / dimmi se sei tu
quell’angelo vero / non andare via / è il tempo della musica / ti aspetto giù al portone
ma il lunedì di Pasqua / al porto c’è sempre confusione / la scuola non mantiene
mai le sue promesse / ed io mi perdo ancora / fra le mie pazzie / e le tue bugie
Ma è la mia città / tra l’inferno e il cielo / dimmi se sei tu / quell’angelo vero
non andare via…
Tratto da www.magazininesistenti.it
Foto e articolo di Salvatore Di Noia©
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