“I giudizi sospesi” nell’universo famiglia
Silvia Dai Pra’, toscana che vive e insegna a Roma, è di recente tornata nelle librerie con “I giudizi sospesi” (Mondadori, pp. 487, euro 20).
I Giovannetti sono una famiglia di quattro elementi: Mauro, il padre; Angela, la madre; Perla, la figlia maggiore e Felix (Felice), il figlio minore. Quattro elementi non ben distribuiti però: Mauro e Perla sono le star della famiglia. Lui insegnante di liceo adorato e venerato da studenti (studentesse, in particolare) e genitori (madri, in particolare). Lei, la figlia prediletta e perfetta, il genio, quella su cui riporre grandi aspettative, che si da per scontato non vengano disattese. Più in ombra, Angela e Felix che sembrano quasi mettersi al servizio di chi sta da sempre sul piedistallo. Una famiglia borghese che vive in una provincia non meglio identificata, che quasi sembra non meritare altro che degli asterischi invece di un nome, perché una provincia come tante, un mondo ristretto e protetto. Certo, contaminato dal perenne vocio della gente, eppure un posto in cui è facile emergere, essere i migliori. La provincia che barcolla nel confronto con la città. Un po’ quello che succede ai Giovannetti.
“Perché è qui, lo sapete, la tragedia della provincia: credersi unici, speciali, ignorando che in ogni minuscolo paesino, in ogni noiosa cittadina esiste una copia della nostra copia della nostra copia -ripetute per l’eternità in ogni piccolo centro dell’Italia.”
L’equilibrio solo apparente della famiglia si mostra per quel che (non) è quando Perla si fidanza con James Tocci, quel Giacomo Tocci che non ama chiamarsi come Leopardi. E quella che all’inizio sembra essere una crisi adolescenziale, si tramuta in una serie di eventi dolorosi, in anni di silenzio, in un ritorno inquieto, in una pace che pare sempre sul punto di ricomporsi, ma poi riscivola via. E tutto per colpa di James Tocci, il classico bel tenebroso che ti fa impazzire ai tempi del liceo, ma che poi crescendo denoteresti con ben altri aggettivi: manipolatore, narcisista, anaffettivo, “un virus mutevole e intelligente”. Ma una delle domande che ci accompagna fino alla fine è: davvero la colpa è tutta o solo sua?
Non è un caso che la voce narrante sia quella di Felix, l’imperfetto di famiglia per eccellenza: canne, ragazze a destra e a manca, poco lavoro se non niente lavoro del tutto, troppo alcool, troppo immobilismo. Ma il racconto di Felix lascia emergere che quegli stessi imperfezione e immobilismo, oltre a essere squisitamente umani, sono comuni a tutta la famiglia, che è proprio l’ultimo posto dove cercarla la perfezione.
“Vi chiedete anche voi costantemente, ossessivamente, perché i rapporti con le persone più importanti della nostra vita si riducano, alla fine dei conti, a una serie di domande mai fatte?”
Quattro blocchi temporali (1998, 2005, 2015, 2023) che raccontano l’evoluzione/involuzione/esplosione di una famiglia in cui è più quel che non si dice, più la coerenza che si trasforma in autolesionismo a farla da padrona. E difficilmente si passa all’azione, a quella davvero risolutiva di un problema. Non si sfruttano quelle onde d’urto che potrebbero trasformarsi in possibilità di comunicazione, e si preferisce frugare nei cassetti, sperando di ritrovarsi la verità direttamente tra le mani.
“E quando lo vedevo così mi chiedevo: cosa può fare un figlio a un genitore? Perché è proprio lì, in quel momento in cui noi sentiamo più drammatica la nostra dipendenza, in cui ci sentiamo incompleti, piccoli, informi, è proprio in quel momento che si cela il nostro più grande potere: uccidere qualcuno senza un’arma, senza nemmeno una parola; uccidere qualcuno soltanto con una scelta.”
In questo romanzo che ben esplora e sonda l’universo famiglia, la tematica è doppia. Non è solo questione di quello che un figlio può fare a un genitore. Ma anche quello che un genitore può fare a un figlio, quando ha aspettative troppo altre, troppo basse, quando vorrebbe una versione migliorata di sé. Certo, a fin di bene. Ma il bene di chi? Se è vero che genitori non si nasce, anche i figli vanno per tentativi, per trovarsi e trovare un equilibro tra la propria persona e la propria famiglia. Un genitore non è/non ha la colpa assoluta di ciò che un figlio diventa. E un figlio non è tenuto a incarnare i desideri di chi l’ha messo al mondo.
Ed ecco allora che ogni famiglia è la storia di un giudizio sospeso: tutti incolpano tutti di tutto, ma ci sono davvero le prove? E che succede quando si incolpa se stessi? Le prove le creiamo o le nascondiamo?
Silvia dai Pra’ ci racconta bene dei prototipi umani in quella che è una storia anche di violenza. Ma è soprattutto il racconto di come a quella violenza si reagisce. Chi si reinventa anche se nella rabbia (Angela). Chi diventa “una baracca tenuta insieme con lo scotch” (Mauro). Chi si barcamena stando però sempre fermo (Felix). Chi passa qualcosa lo fa (Perla).
L’autrice ci trascina fino all’ultima pagina, dandoci la speranza e l’illusione di poter trovare delle risposte, o anche solo quell’unica risposta di cui tanto sentiamo il bisogno dopo che i Giovannetti sono diventati un po’ anche la nostra famiglia. Eppure tra le mani ci resta solo l’attesa, quella di un finale buono, per avere un po’ di respiro prima di ricominciare.
“Ancora oggi – oggi che so che questa domanda non doveri proprio farmela – ancora oggi non so che male avessimo fatto.”
Laura Franchi