HYBRIS: Antonio Rezza in scena al Teatro Elfo Puccini il suo nuovo, folle capolavoro
“Veranda: un tentativo disperato del dentro di rientrare fuori”
Più che dal titolo, “Hybris”, che in greco antico indica l’insolente tracotanza con la quale l’uomo, sopravvalutando le sue forze, ha l’arrogante coraggio di sfidare il volere delle divinità, e quindi il suo destino, è da questo elemento architettonico, la veranda appunto, che bisogna partire per tentare, con la quasi certezza di fallire, di dare una definizione del nuovo “manufatto teatrale” della premiata coppia RezzaMastrella.
Antonio Rezza e Flavia Mastrella sono infatti, da sempre e prima di ogni altra cosa, due geniali architetti e sapienti costruttori di “mondi” attraverso strumenti diversi e tra loro complementari: Mastrella attraverso il suo modo di dipingere la scena, e Rezza con la sua maniera unica e prepotente di abitarla con il corpo, la voce, la presenza e l’assenza. Parliamo di mondi che possono essere infiniti o piccolissimi (casa di Mamma, per esempio…), tutto dipende da quale parte della porta ci troviamo. Perché, se il “dentro” e il “fuori” sono elementi a dimensione variabile le pareti anche se trasparenti, di vetro, ci impediscono di sentire le parole e rendono inutile, impossibile, ogni comunicazione; tranne che attraverso uno spiraglio, una porta, dalla quale possiamo cogliere, se non tutta la realtà, almeno “un pezzetto”.
In questo lavoro, non a caso, Mastrella “minima lizza” gli elementi scenografici per focalizzare tutta la nostra attenzione su un solo elemento, protagonista assoluto e vero significante: una pesante porta che viene trasportata, agitata, finanche violentata e finalmente trasformata in arma di morte da un incontenibile Antonio Rezza. È lui, deus assoluto di una scena questa volta popolata da altri personaggi, il grande burattinaio, colui che comanda come sempre il gioco. Egli crea e distrugge; include ed esclude; accoglie e respinge; fa incontrare e separa; dà la vita e la morte. Eppure è lui stesso a subire l’isolamento, la solitudine, la difficoltà a comunicare attraverso immaginari muri di vetro, ad affacciarsi compulsivamente alla ricerca di qualcuno al di là di una porta che si apre verso un ignoto quasi sempre deserto. La famiglia è sinonimo di formalità (l’incontro dei parenti), e come detto di solitudine collettiva, talvolta violenza (con la complicità degli spazi piccoli), ma soprattutto di chiusura verso l’esterno. L’incontro con l’altro è funzionale a noi stessi (“bella serata, perché rovinarla con l’amicizia?) e tutto il bello è nell’attesa di questo incontro (“goditela!”) più che in un vero dialogo che, infatti, non si concretizza mai.
In “Hybris”, gli elementi della “poetica rezziana” ci sono tutti (la ripetizione, l’autocitazione, le intuizioni logiche e filosofiche, il suono che si fa corpo e viceversa ecc.) e fanno sì che l’attenzione del pubblico, attonito ed entusiasta, sia costantemente stimolata e coinvolta. Dal punto di vista drammaturgico, superato un possibile sconcerto iniziale, soprattutto da parte di chi non conosce già i suoi lavori, nel pensare magari di trovarsi di fronte alle prove di un laboratorio teatrale, è difficile non farsi catturare dalle ipercinetiche capacità fisiche e dalle continue e argute provocazioni dialettiche e filosofiche del protagonista. Alla fine lo ameremo (e ci spelleremo le mani per almeno dieci minuti di applausi), forse lo odieremo, ma Antonio Rezza non ci potrà mai lasciare indifferenti: questa è una certezza.
A chi, speriamo in molti come sempre, deciderà di andrà a vederlo, segnaliamo senza svelarle due scene di livello assoluto, quella del “metal detector” e quella del “fischietto al cielo”, di fronte alle quali riuscire a non ridere fino alle lacrime è impresa da guinness dei primati: provate a sfidare voi stessi a riuscirci, se siete capaci. Oppure, come dice Antonio Rezza a proposito dell’attesa: “Gustatela”.
In scena al Teatro Elfo Puccini di Milano fino al 27 novembre.
A.B.